Ilan Pappe: “Jenin non dimenticherà il massacro israeliano”
Dalla collina su cui è costruito il campo profughi di Jenin lo storico israeliano ricorda la distruzione del 2002 e legge nelle condizioni di vita in Cisgiordania il fallimento della soluzione a due Stati
Il campo profughi di Jenin dopo l’attacco israeliano del 2002 (Fonte: http://i254.photobucket.com)
di Ilan Pappe* – Electronic Intifada
di Ilan Pappe* – Electronic Intifada
Jenin,
24 aprile 2017, Nena News – Quindici anni fa, questo mese, l’esercito
israeliano ha bombardato e assaltato il campo profughi di Jenin per
oltre dieci giorni. Era parte dell’operazione israeliana “Scudo
Protettivo” durante la quale Israele ha inviato truppe nel cuore delle
sei principali città della Cisgiordania occupata e nei villaggi e i
campi profughi vicini, che erano sotto il controllo dell’Autorità
Nazionale Palestinese.
In un
rapporto sull’assalto le Nazioni Unite hanno concluso che l’esercito
israeliano ha ucciso decine di palestinesi in un campo grande solo 0,4
km quadrati e che ospita circa 15mila persone.
Dopo
l’assalto, un lungo dibattito è nato intorno al numero delle vittime.
Nell’urgenza immediata che regnava nel campo, i numeri parevano essere
molto alti. Israele impedì ai membri di una commissione d’inchiesta Onu
inviata dal Consiglio di Sicurezza di condurre un’indagine, ma un
rapporto successivo compilato dal segretario generale concluse che
almeno 52 palestinesi erano stati uccisi nel campo profughi di Jenin.
Almeno 500 palestinesi furono uccisi e altri 1.500 feriti nel corso
della campagna israeliana in Cisgiordania dal marzo al maggio 2002.
Tuttavia non furono solo i numeri a scioccare il mondo all’epoca, ma la
natura brutale dell’assalto israeliano che non aveva precedenti neppure
nella dura storia dell’occupazione.
Questa
brutalità può essere compresa al meglio visitando il campo. Il quartiere
affollato è stato preso d’assalto dal cielo con gli elicotteri, colpito
dai carri armati dalle colline intorno e invaso da veicoli mostruosi,
un ibrido tra un tank e un bulldozer che gli israeliani hanno
soprannominato Achzarit, “il brutale”, perché ha raso al suolo le case e
trasformato gli stretti vicoli in superstrade attraverso le quali i
carri armati potessero passare.
I carri
armati hanno di nuovo fatto visita al campo dopo l’operazione, in
genere in piena notte, traumatizzando i bambini per anni con il loro
boato.
Geografia di un disastro
Sono
stato al campo la scorsa settimana durante una visita della filiale di
Jenin della Al-Quds Open University. Siamo corsi in città e siamo
tornati nella Palestina ’48 (l’attuale Stato di Israele) perché la
compagnia privata che gestisce il checkpoint di Jalameh avrebbe chiuso
il passaggio nei giorni successivi così che gli ebrei israeliani
avrebbero potuto celebrare la Pasqua dimenticando i palestinesi sotto
assedio in Cisgiordania.
L’esercito ha imposto chiusure ai villaggi e i quartieri della
Cisgiordania e incarcerato milioni di persone in piccole enclavi così
che i coloni israeliani possano muoversi come se questa fosse una terra
nullius – una terra senza popolo, una terra di nessuno.
La
Al-Quds Open University ha offerto cibo e bevande ai bambini, tra gli
altri, dei prigionieri politici e dei martiri. Al momento ha sede in un
edificio in affitto, nella speranza che un giorno possa spostarsi in un
campus vero e proprio, se i milioni di dollari necessari al suo
completamento saranno trovati.
Oltre
50mila palestinesi usano i servizi dell’università nelle sue filiali in
giro per Cisgiordania e Gaza, in una realtà geopolitica di
frammentazione imposta da Israele e di controllo che richiede che sia
l’università ad andare dai suoi studenti perché gli studenti non possono
andare all’università.
Resilienza e resistenza possono essere portati avanti in tanti modi e
nel 2017 – diversamente dalla resistenza armata del 2002 – passa per
questo tipo di determinazione: all’attuale regime in Israele viene
ricordato che non può cancellare, o totalmente ignorare, i milioni di
persone che opprime ogni giorno dal 1967.
All’interno della geografia del disastro, ci sono diversi gradi di
povertà e oppressione. C’è una divisione chiara tra la città di Jenin e
il campo. Capisci quando hai lasciato la città per entrare in questo
enorme campo, costruito sul versante di una ripida collina sul lato
occidentale della città. È anche molto facile da vedere quali delle case
del campo furono demolite durante il massacro del 2002: sono quelle
ricostruite con l’aiuto del denaro arrivato dal Golfo.
Sono
molto poche le case uscite indenni dall’assalto feroce del 2002. Quando
sali in cima alla collina, vedi il luogo in cui i carri armati
israeliani erano posizionati, facendo piovere il loro fuoco sul campo
senza difesa appena sotto, infliggendo caos e morte, tattiche troppo
familiari dei ripetuti assalti israeliani contro Gaza.
Visione chiara
Tuttavia, c’è qualcos’altro che noti quando sei sulla collina. Puoi
vedere l’intera regione che parte da Jenin, nel nord della Cisgiordania,
e arriva al Mar Mediterraneo. Puoi vedere da Marj Ibn Amr – la fertile
regione anche nota come piana di Esdrelon – fino ad Haifa sulla costa.
I
villaggi e le città che erano lì prima del 1948 sono stati spazzati via
durante la Nakba – la pulizia etnica della Palestina da parte delle
milizie sioniste. La maggior parte di coloro che ci vivevano sono stati
cacciati e possono vedere dalla collina come le loro case e le loro
terre siano state trasformate in colonie ebraiche e “foreste” del Jewish
National Fund.
Il
collegamento tra quello che vedi dalla collina e gli orrori dell’aprile
2002 è chiaro. È solo un altro promemoria ci quello che il defunto
studioso Patrick Wolfe articolò così bene quando notò che il
colonialismo di insediamento è una struttura, non un evento.
Nel
caso del sionismo, si tratta di una struttura di sfollamento e
rimpiazzamento o, per parafrasare le parole di Edward Said, di
sostituzione di un’assenza con una presenza. È cominciata nel 1882 con
le prime colonie sioniste e ha raggiunto il suo apice nel 1948, per
continuare poi con veemenza nel 1967 e mantenersi viva fino ad oggi.
Il
tentativo di distruggere la resistenza allo sfollamento è quanto
accaduto nel campo 15 anni fa. Le foto dei martiri del 2002 coprono
ancora i muri e le strade. Sotto, siede un grande numero di giovani
disoccupati: il campo di Jenin è uno di quelli con il più alto tasso di
disoccupazione in Cisgiordania.
Parlando con loro è chiaro che sono determinati a non soccombere alla
disperazione e all’apatia. L’educazione offerta dalla Al Quds Open
University è uno dei modi per reagire alla vita nel campo e
all’oppressione. Ma la resistenza è ancora un’opzione.
Dopotutto, questa è la zona da cui le più significative spinte
anti-coloniali da parte palestinese si sono diffuse nei primi anni
Trenta: la ribellione guidata da Izz al-Din al-Qassam. Simbolico che in
questa mia visita abbia incontrato suo nipote, Ahmad. Abbiamo parlato
brevemente su come l’immagine storica del nonno sia distorta da cui lo
paragona ai jihadisti di oggi. Era molto lontano da esserlo.
Se i
britannici non lo avessero ucciso nel 1935, sarebbe diventato il Che
Guevara palestinese. Era un carismatico leader anti-colonialista che
operava tra la gente che è stata la prima vittima del sionismo negli
anni Trenta, i contadini e i mezzadri sfollati e cacciati dalle terre
che avevano coltivato per secoli.
Una sola patria
La
geografia e la topografia del campo ci dicono qualcos’altro: la
soluzione a due Stati è un’idea assurda. Il campo si trova vicino al
checkpoint di Salem tra Cisgiordania e l’attuale Stato di Israele. Il
viaggio in auto da Jenin a Haifa attraverso questo passaggio durava 20
minuti negli anni passati.
Prima
che gli Accordi di Oslo fossero firmati da Israele e dall’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina nel 1993, c’era libertà di movimento
per la gente e le merci in questa parte settentrionale della Palestina,
fino al 1948 amministrata come una regione unica.
Anche
dopo la firma dell’accordo – quando il checkpoint di Salem era il solo
punto di passaggio tra Jenin e il resto del mondo – era ovvio che
l’intera area era parte della stessa patria. Gli architetti di Oslo
sperarono di rompere questa integrità storica, culturale ed economica e
chiudere il passaggio, costringendo la gente ad usare il checkpoint
settentrionale di Jalameh. Questo ha trasformato un viaggio molto breve
in un viaggio molto lungo, con Salem che diventava una corte militare
dove oggi i palestinesi vengono mandati in prigione senza processo o
dopo un processo-farsa.
Oslo
doveva anche risolvere l’eterno problema sionista: come avere il
territorio senza la sua gente. La “soluzione” fu quella di confinare i
palestinesi in enclavi controllando il loro spazio e usando la forza
bruta, come ha fatto Israele a Jenin nell’aprile 2002, ogni qualvolta la
gente ne aveva abbastanza, chiedeva un cambiamento o combatteva.
Quel
progetto coloniale sionista continua, ma sarà oggetto di resistenza
nella terra di Izz al-Din al-Qassam e in un campo dove la gente non
dimentica e ha ben poco da perdere.
*Autore
di numerosi libri, Ilan Pappe è professore di storia e direttore del
Centro Europeo per gli Studi Palestinesi all’università di Exeter.
Traduzione a cura della redazione di Nena News
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