Commissione Giustizia e Pace: La questione della normalizzazione in Terra Santa
COMUNICATO
STAMPA – Di seguito riportiamo il comunicato stampa emesso dalla
Commissione Giustizia e Pace sulla normalizzazione nel…
lpj.org
ASSEMBLEA DEGLI ORDINARI CATTOLICI DI TERRA SANTA
La questione della «normalizzazione»
Che cosa significa “normalizzazione” nel contesto
israelo-palestinese? In sintesi, per “normalizzazione” si intende
l’istaurazione di rapporti con lo Stato di Israele, le sue istituzioni e
i suoi cittadini, “come se” la situazione attuale fosse normale e,
quindi, ignorando la guerra, l’occupazione e la discriminazione ancora
in corso, o si voglia consapevolmente occultandole oppure dando loro una
posizione marginale.
La questione della “normalizzazione” costituisce una parte importante
del dibattito politico nel mondo arabo di oggi, soprattutto in
Palestina, sull’atteggiamento da adottare nei confronti dello Stato di
Israele.
L’opposizione alla normalizzazione e le accuse di normalizzazione
sono assai frequenti da parte dei governi, delle organizzazioni non
governative e dei singoli individui.
In realtà, la situazione in Israele e Palestina è lungi dall’essere
normale, dato il conflitto che esiste senza soluzione di continuità tra i
due popoli, palestinese e israeliano. Questo conflitto ha un profondo
impatto sulla vita quotidiana delle due diverse realtà, lo Stato della
Palestina e lo Stato di Israele secondo i confini anteriori al 1967.
Nello Stato di Israele, tutti i cittadini, ebrei e arabi, in linea di
principio hanno gli stessi diritti. Ma in realtà i cittadini arabi
subiscono discriminazioni in molti settori e in vari modi: nell’accedere
allo sviluppo, all’istruzione, al lavoro, al finanziamento pubblico per
i comuni arabi, ecc. Alcune di queste forme di discriminazione sono
sancite nella Legislazione, ma altre sono indirette e nascoste.
Nello Stato della Palestina, nonostante l’esistenza dell’Autorità
palestinese, i palestinesi continuano a vivere sotto occupazione
militare, che ne condiziona la vita quotidiana: la costruzione di
insediamenti e strade, la legalizzazione di costruzioni israeliane sulla
terra palestinese, incursioni militari private, omicidi, arresti
arbitrari, detenzioni amministrative e punizioni collettive, confisca
delle terre, demolizioni di case, posti di blocco che limitano la
libertà di movimento e che creano molti ostacoli allo sviluppo
economico, l’interdizione del ricongiungimento familiare, ossia la
violazione del diritto naturale dei membri della stessa famiglia di
vivere insieme.
In entrambe le società, israeliana e palestinese, la vita dei
Palestinesi è lungi dall’essere normale. Comportarsi “come se” le cose
fossero normali significa ignorare la violazione dei diritti umani
fondamentali. Allo stesso tempo, in entrambi le situazioni, la vita
quotidiana richiede alcune relazioni con le Autorità israeliane.
Tuttavia, tutte le persone e le istituzioni coinvolte nel mantenere
questi rapporti devono essere consapevoli che qualcosa di “anomalo”
necessita di essere rettificato invece di permettere che l’“anormale”
diventi un dato di fatto.
In Israele, gli Arabi che hanno la cittadinanza israeliana mantengono
rapporti di reciprocità con le autorità civili e sono rappresentati
nella Knesset. Oltre 300.000 cristiani vivono in Israele (cittadini
arabi di Israele, cittadini israeliani cristiani di lingua ebraica,
lavoratori migranti residenti a lungo termine e i richiedenti asilo) in
Israele nel lungo periodo. I cittadini e i residenti di lungo termini
rispettano le leggi dello Stato e quindi hanno il diritto e il dovere
morale di utilizzare tutti i mezzi legali e non violenti a loro
disposizione per promuovere pieni diritti e piena uguaglianza per tutti i
cittadini. Ignorare o emarginare questo dovere significa
“normalizzare”, collaborando con strutture discriminanti, che alimentano
l’ingiustizia e l’assenza di pace. In questo contesto, la Chiesa ha
l’obbligo di garantire il corretto funzionamento delle parrocchie, delle
scuole e di molte altre sue istituzioni, devando interagire con chi
amministra i territori in cui opera.
Tutto questo, però, non deve mai
prescindere dall’impegno della Chiesa per la giustizia e per la denuncia
di ogni ingiustizia.
In Palestina, l’Autorità palestinese è costretta a coordinarsi con le
autorità israeliane per operare. Eppure i cittadini palestinesi hanno
un controllo molto limitato sulla propria vita, e hanno bisogno di
permessi e autorizzazioni degli israeliani per molti aspetti della loro
vita quotidiana, per esempio: visitare i Luoghi Santi, avere accesso
alle istituzioni palestinesi (parrocchie, scuole, ospedali) nella parte
occupata di Gerusalemme, costruire case o avviare commerci nelle aree
palestinesi controllate dalle Autorità israeliane. Allo stesso modo la
Chiesa, per le esigenze della vita quotidiana, non può vivere o lavorare
senza chiedere permessi e visti alle Autorità israeliane. La Chiesa ha
l’obbligo morale di discernere costantemente tra ciò che è inevitabile
nei rapporti con la potenza occupante al fine di garantire le esigenze
quotidiane e ciò che invece dovrebbero essere evitato, ossia non
coinvolgendosi in relazioni e attività che alimentano la sensazione che
“la situazione è normale”.
Data la natura della sua missione, la Chiesa ha valori e criteri
propri per definire la sua posizione in una situazione di conflitto come
quello esistente tra Israele e Palestina. Nessun discorso politico
specifico, nessuna posizione di parte o nessuna particolare opzione
ideologica è vincolante per la Chiesa. Tuttavia, allo stesso tempo, la
Chiesa non può ignorare le ingiustizie fondamentali o le azioni che
mettono in pericolo la pace e il benessere della persona umana. Per sua
stessa natura, la Chiesa si oppone all’occupazione e alla
discriminazione ed è impegnata nel promuovere la giustizia, la pace, la
dignità e l’uguaglianza di ogni persona umana. La Chiesa non può mai
ignorare l’ingiustizia “come se” tutto andasse bene, ma ha l’obbligo di
denunciare, di resistere al male e di lavorare instancabilmente per il
cambiamento. Come gli antichi profeti, la Chiesa in quanto corpo
profetico, addita l’ingiustizia e la denuncia.
Per questo motivo c’è un legame importante tra il discorso politico
che si oppone alla normalizzazione e la posizione della Chiesa di fronte
alle situazioni di ingiustizia. La Chiesa lavora con tutti coloro che
condividono i valori che essa proclama, qualunque sia la loro
appartenenza, israeliana o palestinese. La Chiesa cerca e incoraggia il
dialogo con tutti, compresi gli israeliani, individui e organizzazioni
che riconoscono la necessità di porre fine all’occupazione e di
eliminare le discriminazioni. La Chiesa si impegna a identificare questi
individui e queste organizzazioni, e tutti coloro che non perpetuano la
situazione, col presumere che il dialogo e la cooperazione possano
ignorare la lotta per la giustizia e nascondere così quelle realtà
ingiuste che condizionano la vita quotidiana di coloro che vivono sotto
l’occupazione o si trovano ad affrontare la discriminazione.
La Chiesa è
impegnata a individuare partner e sviluppare strategie costruttive in
collaborazione con loro per riparare il nostro mondo rovinato. Inoltre,
la Chiesa locale in Israele – Palestina ha la responsabilità di
ricordare alla Chiesa universale che la situazione in Israele –
Palestina è una ferita aperta e purulenta, e la situazione non può
essere considerata normale.
Nella attuale situazione politica, confusa e senza speranza, le
comunità cristiane, i responsabili della Chiesa e i fedeli hanno
costante bisogno di discernimento. Essi sono invitati a consultarsi e
lavorare a stretto contatto insieme per trovare il modo migliore per
testimoniare in favore di una società giusta e uguale per tutti,
coltivando contemporaneamente un rapporto rispettoso con tutti i
concittadini, con i quali loro sono chiamati a vivere e a lavorare
insieme per una pace giusta e duratura.
Gerusalemme, 14 maggio 2017
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