Zvi Bar’el :Fonti palestinesi dicono che Abbas sta cercando di ingraziarsi Trump punendo Hamas
Zvi Bar’el, 29 aprile 2017, Haaretz Mantenere al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente…
Zeitun
Mantenere
al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente politico da
parte del presidente palestinese per convincere Trump di essere un
partner per la pace.
I due milioni di abitanti
della Striscia di Gaza sono al buio – non come metafora della mancanza
di un orizzonte diplomatico, ma realmente. Il blackout è il vertice
dell’assedio economico cui è sottoposto il territorio.
Decine di migliaia di
dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza hanno subito un
taglio di almeno il 30% ai loro salari e molti lavoratori stanno per
essere costretti ad andare in pensione anticipata. L’assistenza fornita
dall’ANP ai sistemi sanitario e di welfare a Gaza diminuirà
probabilmente in modo drastico. E se non sarà trovata a breve termine
una soluzione alla frattura tra Hamas e Fatah, il presidente dell’ANP
Mahmoud Abbas potrebbe dichiarare Gaza sotto la guida di Hamas “Stato
ribelle” e forse addirittura definire Hamas un’organizzazione
terroristica.
Tutto questo avviene mentre
Khaled Meshal, tuttora a capo dell’ufficio politico di Hamas, si
accinge a rendere pubblico il nuovo statuto dell’organizzazione, lunedì
prossimo in Qatar. Due giorni dopo Abbas incontrerà il presidente USA
Donald Trump.
La pressione su Gaza non è
casuale, né è slegata dagli sviluppi regionali ed internazionali.
Durante un incontro degli ambasciatori palestinesi di tutto il mondo,
l’11 aprile in Bahrein, Abbas ha affermato che intende intraprendere
un’azione risoluta nei confronti della “pericolosa situazione” creata da
Hamas a Gaza. Due giorni dopo ha ordinato i tagli ai salari, in seguito
all’annuncio di inizio anno dell’Unione Europea che non avrebbe più
finanziato i salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.
Inoltre, a gennaio, il
Qatar ha reso noto che l’intervento di emergenza concesso per finanziare
l’acquisto di elettricità da Israele per Gaza si sarebbe concluso entro
tre mesi. Tale decisione non era inattesa, anche se la dirigenza di
Hamas a Gaza era ancora convinta che il Qatar avrebbe continuato a
finanziare i pagamenti per l’elettricità.
Allora Abbas ha annunciato
che avrebbe finanziato l’acquisto di elettricità se Hamas avesse pagato
le relative tasse – una condizione che Hamas non poteva accettare,
perché avrebbe triplicato il prezzo dell’elettricità. Giovedì l’ANP ha
detto ad Israele che non avrebbe più pagato per l’elettricità e ha
chiesto che Israele smettesse di detrarre i pagamenti [per l’energia
elettrica destinata a Gaza, ndt.] dalle tasse che raccoglie a nome
dell’ANP.
L’ANP ha giustificato tutti
questi passi con la cronica carenza di liquidità, ma gli analisti
ritengono che Abbas stia cercando di ottenere uno dei due scopi, o forse
entrambi: abbattere il governo di Hamas aggiungendo il proprio blocco a
quelli imposti da Israele ed Egitto, oppure costringere Hamas ad
accettare le richieste dell’ANP guidata da Fatah.
Il pretesto politico
ufficiale per la punizione è stata la decisione di Hamas di creare un
consiglio amministrativo per gestire i servizi pubblici a Gaza – in
sostanza, una sorta di governo. Questo eluderebbe la decisione presa a
giugno 2014 di stabilire un governo di unità palestinese finché non
fosse possibile svolgere nuove elezioni parlamentari e presidenziali.
Salah Al Bardawil, un alto
dirigente di Hamas a Gaza, ha replicato che Hamas avrebbe di buon grado
sciolto il consiglio e consentito che il governo di unità governasse
Gaza, compresi i valichi di frontiera, se l’ANP avesse trattato Gaza al
pari della Cisgiordania. Benché Fatah sostenga che Hamas non le consente
di governare correttamente Gaza, Hamas a0fferma che l’ANP compie
sistematiche discriminazioni nei confronti di Gaza, il che rende
necessario il consiglio am0ministrativo.
Ma questo dissidio non spiega l’improvviso cambio di politica dell’ANP, tre anni dopo la formazione del governo di unità.
Una spiegazione fornita da
fonti palestinesi fa riferimento al “clima generale” contrario ad Hamas,
sia a livello regionale che internazionale, soprattutto a Washington.
Abbas, dicono, vuole portare una “dote” all’incontro con Trump la
prossima settimana, dato che il presidente USA ha fatto della guerra al
terrore un principio cardine della sua politica estera. Inoltre Egitto,
Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo condividono questo principio
e tutti vedono in Abbas l’unico partner per qualunque eventuale
processo diplomatico.
Se davvero Abbas sta
punendo Hamas come parte di un‘iniziativa diplomatica, e non solo per
ragioni interne, questo potrebbe aiutarlo a convincere Trump che lui sta
veramente combattendo il terrorismo come chiede il primo ministro
Benjamin Netanyahu e che Netanyahu sbaglia a sostenere di non avere un
interlocutore palestinese per la pace. Dimostrare che Abbas sta
sinceramente cercando di costringere Hamas ad accettare il governo di
unità ed a riconoscerlo come il rappresentante di tutti i palestinesi,
scardinerebbe l’ulteriore argomentazione di Netanyahu che Abbas non può
essere un interlocutore perché non rappresenta Gaza.
Se Hamas rifiuta di cedere
nonostante queste pesanti pressioni, Abbas potrebbe rafforzarle, forse
arrivando a dichiarare Hamas una organizzazione terroristica. Ma questo
sembra improbabile, dato che significherebbe un totale boicottaggio
internazionale di Gaza, a cui ci si aspetta si uniscano anche Paesi come
la Turchia e il Qatar.
A quanto pare Meshal ha
deciso di rendere pubblico il nuovo statuto di Hamas lunedì, nella
speranza che provocare una risonanza mediatica sul “cambiamento” nelle
posizioni dell’organizzazione impedirebbe un accordo tra America,
Palestina ed Israele per distruggere l’organizzazione. Il nuovo
documento rifletterà in apparenza due cambiamenti principali: una
rottura con la Fratellanza Musulmana e la disponibilità ad un
compromesso diplomatico.
A differenza del vecchio
statuto del 1988, il nuovo non fa menzione della Fratellanza Musulmana.
Questa omissione è intesa a presentare Hamas come un’organizzazione
esclusivamente palestinese piuttosto che basata su un’ideologia esterna
panislamica. Ma soprattutto la mossa ha lo scopo di rabbonire l’Egitto,
che sta ingaggiando una guerra a tutto campo contro la Fratellanza.
Il secondo fondamentale
cambiamento è una clausola che recita: “Non vi sarà alcuna concessione
di nessuna porzione della terra palestinese, indipendentemente dalla
durata o dalle pressioni, nemmeno se l’occupazione continua. Hamas
rifiuta ogni alternativa alla liberazione della Palestina nella sua
interezza, dal fiume fino al mare”, intendendo il fiume Giordano e il
Mar Mediterraneo. Così prosegue: “La creazione di uno Stato palestinese
indipendente con capitale Gerusalemme, sulla base dei confini del 4
giugno 1967, ed il ritorno dei rifugiati palestinesi alle case da cui
sono stati cacciati è il programma nazionale condiviso e consensuale,
che non significa assolutamente riconoscere l’entità sionista, come non
significa rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi.”
Né Israele né gli Stati
Uniti possono vedere in queste parole una concessione politica
significativa, anche se riconosce i confini del 1967. Al massimo, la
clausola indica che viene adottata la strategia che Fatah ha propugnato
prima degli Accordi di Oslo del 1993: liberare tutta la Palestina, ma in
diverse fasi.
Perciò neanche la creazione
di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 metterebbe
fine al conflitto con Hamas o al suo desiderio di liberare la Palestina
“da Rosh Hanikra a nord a Umm al- Rashrash a sud, dal Fiume Giordano ad
est al Mar Mediterraneo ad ovest”, come recita l’articolo 2 del nuovo
statuto. Lo statuto inoltre sottolinea che la lotta e la resistenza
armate sono la via per conseguire questo obbiettivo.
Tuttavia, Hamas può sperare
che il riferimento ai confini del 1967 innescherà un dibattito pubblico
sia nei territori palestinesi che in Israele. Potrebbe anche scalfire i
tentativi di presentare l’organizzazione come contraria ad ogni
iniziativa diplomatica, portare l’America a cancellarla dall’elenco
delle organizzazioni terroriste e indebolire gli sforzi di Abbas di
presentarsi come l’unico possibile partner per i negoziati. In questo
contesto, vale la pena ricordare che nel 2008 Meshal espresse
l’intenzione di accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967
senza riconoscere Israele.
La grande domanda è come
reagirà a tutto questo il presidente americano. Abbas riuscirà a
cancellare la sua immagine di “non partner” e quindi indurre Trump ad
addossare a Netanyahu parte delle colpe per lo stallo diplomatico? Trump
riuscirà a formulare una nuova politica degli Stati Uniti per
raggiungere una soluzione diplomatica dopo l’incontro con Abbas, avendo
già ascoltato i punti di vista del presidente egiziano Abdel-Fattah
al-Sissi, del re di Giordania Abdullah e del re dell’Arabia Saudita
Salman? E metterà Hamas nella stessa lista di Hezbollah, dello Stato
Islamico e dell’Iran, oppure lo considererà parte imprescindibile di
ogni soluzione?
Finché Trump non deciderà,
la politica punitiva di Abbas verso Gaza lascerà Israele sull’orlo di
un’esplosione. Nessuna delle opzioni israeliane per disinnescare la
bomba di Gaza è gradevole.
Potrebbe pagare lui stesso
per l’elettricità di Gaza, chiedere alla Turchia di aumentare i suoi
aiuti o convincere il Qatar a rinviare il taglio dei suoi finanziamenti.
Ma ciascuna di queste opzioni apparirebbe come un aiuto di Israele ad
Hamas, non come un tentativo di salvare i residenti di Gaza dalla crisi
economica ed umanitaria. D’altro lato, non fare niente potrebbe
accelerare l’esplosione di Gaza, da cui alti ufficiali dell’esercito
hanno di recente messo in guardia, e porre Israele di fronte ad un altro
ciclo di violenze.
In entrambi i casi, ancora
una volta risulta chiaro che l’indifferenza di Israele per le crisi
politiche ed economiche della Palestina è una minaccia strategica alla
sua stessa sicurezza e al suo prestigio internazionale.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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