Il primo attacco, a sorpresa, parte il 5 giugno 1967, alle 7.45:
aerei militari israeliani distruggono quasi del tutto l’aviazione
egiziana. Stessa sorte, di lì a poche ore, per gli aerei siriani e
giordani. Prive della necessaria copertura aerea le truppe egiziane
subiscono anche l’offensiva terrestre israeliana. L’esercito con la
Stella di David arriva nella penisola del Sinai passando per la Striscia
di Gaza. Le brigate corazzate israeliane contrattaccano anche a
Gerusalemme e a Jenin, varcando il confine della Cisgiordania per la
prima volta dal 1948, dopo che la Giordania di re Hussein aveva preso a
bombardare Gerusalemme Ovest e Tel Aviv, forte di un Trattato di Mutua
Difesa siglato con l’Egitto il 30 maggio. I giorni successivi le forze
armate israeliane confermano sul terreno la propria superiorità
soprattutto sul fronte egiziano. Il 7 giugno le Forze israeliane entrano
nella Città Vecchia di Gerusalemme, conquistando la Spianata delle
moschee e il Muro del Pianto. Nel fronte siriano solo bombardamenti
israeliani sulle alture del Golan. L’8 giugno entra in vigore il
cessate-il-fuoco, richiesto dall’Onu, con Giordania e Egitto, e alle 3
del mattino del giorno dopo quello con la Siria. Nonostante ciò Israele
continua a martellare con aviazione e artiglieria le alture del Golan
conquistandole e costringendo l’esercito siriano a ritirare verso la
capitale Damasco. Il 10 giugno cessano le ostilità. Il 22 novembre dello
stesso anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva la Risoluzione
242 con cui si chiede la fine di ogni atto di belligeranza in Medio
Oriente, il rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e
dell’indipendenza politica di ogni Stato dell’area, una giusta soluzione
del problema dei profughi, il ritiro delle Forze armate israeliane
“from Occupied territories” (da territori occupati, testo inglese) e
“des territoires occupés” (dai territori occupati, testo francese). Una
sfumatura grammaticale di non poco conto che ha generato differenti
interpretazioni diplomatiche per nulla chiarite in questi 50 anni.
Inutile anche l’approvazione, sempre da parte del Consiglio di
Sicurezza, della Risoluzione 338 (dopo la Guerra del Kippur, 1973), che
chiedeva, tra l’altro, la piena attuazione della 242. Di fatto la “guerra dei Sei giorni” segna il passaggio dell’intera Palestina sotto Israele aprendo la questione palestinese.
Conflitto marginale. “Il conflitto ha cambiato completamente gli scenari dell’area.
Israele ha mostrato la sua forza militare e la sua
efficienza al mondo arabo. Quest’ultimo ha incassato la sconfitta e
compreso i suoi limiti”
spiega Janiki Cingoli, presidente del Cipmo, il Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo.org)
che alla Guerra dei Sei Giorni dedicherà un evento il 7 giugno a Milano
intitolato “A 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni: il Medio Oriente ai
tempi di Trump”. “In questo lungo tempo i tentativi di risolvere il
conflitto-israelo-palestinese si sono bloccati. La Comunità
internazionale appare sempre più orientata ad un management del
conflitto piuttosto che ad una sua soluzione – dice il presidente del
Cipmo – anche perché, con altre gravi crisi scoppiate nel quadrante
mediorientale, Siria, Iraq, Yemen e Libia, quella israelo-palestinese
appare sempre più marginale”. Altro elemento che grava sulla
questione, secondo Cingoli, è il conflitto tra area sunnita, a guida
saudita, e quella sciita, a guida iraniana:
“Trump con la sua recente missione in Medio Oriente ha puntato a
rilanciare le alleanze Usa nella Regione e a costruire un asse tra
Stati arabi sunniti e Israele per contenere, non distruggere,
l’espansionismo iraniano (Iraq, Siria e Hezbollah) e la presenza russa
sempre più incisiva e determinante”.
“Il salto di qualità”, come lo definisce il presidente del Cipmo, che
Trump intende fare è “portare alla luce del sole questa vera e propria
alleanza militare contro l’Iran e l’Isis. Ma si tratta di una
contraddizione evidente poiché
tra Iran e Isis non c’è molto in comune. Lo Stato Islamico
infatti, è connesso a fondazioni e servizi segreti legati al wahabismo
sunnita. Difficile attribuirgli gli attentati in Europa o ai copti in
Egitto”.
Per realizzare questo obiettivo, sostiene Cingoli, “Trump dichiara di
voler trovare una soluzione definitiva al conflitto
israelo-palestinese, un passaggio, peraltro, richiesto da Riad e i suoi
alleati arabi. Se si tratti di propaganda o di reale tentativo è
difficile dirlo. Forse si arriverà nell’estate ad un vertice tra il
presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier israeliano Netanyahu
con qualche capo arabo di contorno”. In gioco ci sono anche accordi e
concessioni di tipo commerciale con i Paesi arabi (per esempio, linee
telefoniche e voli diretti) intesi come “passi intermedi rispetto a
quanto previsto dal Piano arabo del 2002”, ma “Israele deve riprendere
il processo di pace e concentrare gli insediamenti nei grandi blocchi”.
A 50 anni dalla Guerra dei Sei giorni e dall’inizio
dell’occupazione israeliana la soluzione “Due popoli, due Stati” resta
ancora percorribile? “La diplomazia di Trump – secondo Cingoli –
sta puntando a spostamenti territoriali a favore dei palestinesi. Si
tratta di passi intermedi che non è detto si concludano con la creazione
di uno Stato palestinese. Molto dipenderà da Netanyahu ma bisognerà
anche vedere cosa accadrà sul versante palestinese sempre spaccato al
suo interno”.
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