Alle origini della potenza cibernetica di Israele


Alle origini della potenza cibernetica di Israele
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Leader della cybersecurity e fucina di startup innovative, lo Stato ebraico usa la potenza informatica come leva di soft power. I potenziali effetti strategici dell’oligopolio con gli Stati Uniti. La rivalità con l’Iran riemergerà sul Web.
di Andrea Puligheddu
lo ha portato a sviluppare, tanto in ambito militare quanto in quello civile, uno dei maggiori tassi d’innovazione del pianeta. Non solo: con la rivoluzione tecnologica, lo Stato ebraico è divenuto uno degli attori internazionali (al fianco degli Stati Uniti) più dotati di capacità informatiche sulla sicurezza.

Alcuni dati testimoniano la straordinaria posizione israeliana. Nel solo 2015, il giro economico generato dall’esportazione di prodotti e servizi di cybersecurity è risultato complessivamente superiore ai 6 miliardi di dollari (superando i 4 miliardi del Regno Unito e i quasi 2 miliardi della Francia). Israele è la seconda potenza nell’esportazione di software in questo ambito: possiede circa l’11% del mercato globale del settore, anche se è ancora ingente la distanza dagli Stati Uniti (detentori di un vertiginoso 60%).

Potente alfiere di questo primato è il gran numero di startup autoctone: 450-500 soggetti dediti alla sicurezza informatica su un totale di circa 6 mila imprese innovative. Secondo uno studio dello Hague Center for Strategic Studies, Israele è tra i paesi maggiormente preparati a difendersi da un attacco cibernetico su larga scala. Stando a un rapporto dell’inglese Privacy International sull’industria della sorveglianza di massa, il paese vanta un tasso di aziende di cybersecurity di circa 0,33 ogni 100.000 persone (negli Stati Uniti il dato si attesta intorno allo 0,04).

Quale alchimia ha reso lo Stato ebraico un cyberleader? Esaminiamo alcuni fattori chiave.

Il primo lega le infrastrutture alla geografia. Controllando un fazzoletto di terra di appena 22.072 km², Israele ha puntato su un possente e resistente impianto infrastrutturale, soprattutto a livello informatico. Un esempio è il progetto del mastodontico cavo sottomarino Jonah, già ribattezzato “l’autostrada digitale”. Costruito con un programma avanzato, si estenderà per circa 2300 km, puntando ad aprire insieme agli altri cavi già posati (uno su tutti MedNautilus) un network di comunicazione protetto tra Israele e l’esterno.

Il secondo fattore riguarda la strategia militare. La flessibilità richiesta alle Forze armate per proteggere il paese da minacce sempre meno prevedibili – anch’esse funzione dell’esiguo territorio nazionale – ha avuto un’influenza anche sul versante militare della sicurezza cibernetica. L’attività strategica in campo informatico è storicamente affidata all’Unità 8200, reparto d’élite nato con funzioni d’intelligence e oggi fulcro della difesa del cyberspazio dello Stato ebraico.

Tra le mansioni dell’Unità 8200 ci sono sia attività di intelligence (per esempio il monitoraggio delle infrastrutture critiche) sia di carattere operativo (come il controllo del traffico Internet ostile e azioni di recupero informazioni mirate). Si rumoreggia anche di una sua partecipazione all’offensiva del virus Stuxnet – in collaborazione con gli Stati Uniti – che nel 2010 ha colpito le centrifughe nucleari dell’Iran. L’Unità 8200 è stato uno dei primi reparti militari al mondo ad adoperare e approfondire metodi di intelligence “informatica”, investendo gran parte delle sue risorse sulla formazione tecnico-scientifica d’eccellenza dei propri membri. Generando così un vantaggio strategico che tuttora la colloca tra i pionieri del settore e la porta occasionalmente a esportare parte del proprio know how verso alcuni selezionati alleati, elemento di estremo interesse per le altre superpotenze occidentali.

Il terzo fattore è un sistema educativo fortemente amalgamato al tessuto industriale. È questa la vera chiave di volta della potenza cibernetica d’Israele.

L’obiettivo del modello dell’istruzione israeliana è ben preciso: individuare i giovani talenti sin dalle scuole superiori, formarli, indirizzarli in università specifiche e assorbirli in seguito all’interno di reparti scelti delle Forze armate (come l’Unità 8200) attraverso il sistema di leva obbligatoria. Qualora decidano di terminare la loro esperienza in ambito militare con il periodo di leva, i giovani israeliani potranno comunque contare su una formazione superiore in ambito tecnologico e un’esperienza operativa di alcuni anni, strumenti idonei a collocarli in una posizione estremamente competitiva nel mercato industriale globale.

Con questi presupposti è nato il CyberSpark, il gigantesco centro universitario e imprenditoriale che sorge nel deserto di Be’er Sheva, già ribattezzata la Silicon Valley del Medio Oriente. Una vera e propria fucina di talenti nell’ambito della sicurezza informatica e del security software vending, che ingloba al suo interno le migliori startup e realtà universitarie israeliane del settore.

Da questo articolato tessuto culturale nascono sia startup di successo (ad un ritmo di almeno 40-50 ogni anno), destinate poi a essere acquistate da grandi società tecnologiche non israeliane. Una su tutte: Check Point, fondata da ex operatori dell’Unità 8200 che dopo aver servito nell’esercito hanno dato vita a un’azienda che esporta le abilità, i processi e i software di sicurezza informatica israeliana in più di 40 paesi, con oltre 100 mila clienti, 1,78 miliardi di fatturato nel solo 2016 e oltre 4300 dipendenti, per lo più concentrati tra Israele e S


Cosa se ne fa Israele di tanta potenza cibernetica?

Lo Stato ebraico ha reso la cybersicurezza una vera e propria bandiera nazionale, un brand da esportare per accrescere la propria influenza nel resto del mondo. Si possono individuare tre modalità attraverso cui lo Stato ebraico esporta le proprie capacità informatiche.

La prima è attraverso l’affiancamento operativo di un’azienda nazionale al paese cliente, affinché quest’ultimo persegua obiettivi compatibili con quelli israeliani. Un esempio: Nso Group, società con sede a Herzliya, specializzata nella vendita di spyware avanzati, ha fornito lo scorso anno un software destinato alla polizia politica degli Emirati Arabi Uniti, consentendole di spiare i dissidenti politici interni. In questo modo, Israele assiste lo sviluppo di capacità di intelligence che le possono tornare utili. Un servizio analogo, stando a quanto riporta Privacy International, sembra sia stato offerto anche alle polizie di Uzbekistan, Kazakistan, Colombia, Trinidad e Tobago, Uganda, Panama e Messico.

Il secondo metodo seguito da Israele per allargare la propria influenza tecnologica è favorire l’espansione territoriale delle aziende in paesi dotati di risorse ma privi di infrastrutture adeguate. Caso interessante è in questo senso quello di CyberGym, che in partnership con la Israel Electronic Corporation e alcune aziende locali ha deciso di puntare sull’apertura di nuove sedi e impianti in Australia.

La terza modalità di relazione con cui Israele mantiene ed espande il proprio primato nella sicurezza informatica si basa su strumenti di soft power. Fonti di questo potere sono la forte pubblicità e i numerosi riconoscimenti delle eccellenze universitarie israeliane in ambito cyber. A sua volta, il soft power dello Stato ebraico incoraggia la conclusione di accordi bilaterali sempre più estesi con potenze emergenti.

Prendiamo il caso dell’India. Durante la sua recente visita in Israele, il premier indiano Narendra Modi ha varato con il suo omologo Netanyahu un piano per condividere le rispettive esperienze in ambito informatico. Intesa che fa il paio con l’accordo di collaborazione formativa e scambio di studenti siglato nel venticinquesimo anniversario della partnership fra le realtà universitarie dei due paesi. Nonostante l’ufficiale preferenza di Delhi per il mondo arabo – retaggio della guerra fredda – è fortemente probabile che nei prossimi anni l’asse indo-israeliano tenda a rafforzarsi. I due attori hanno infatti bisogno l’uno dell’altro: l’India è una delle maggiori potenza mondiali in tema di hardware, mentre lo Stato ebraico lo è per quanto riguarda il software.

L’emersione d’Israele a polo di attrazione informatica per molti paesi ha dunque spinto questi ultimi a adattare le priorità diplomatiche alla necessità di proteggere gli investimenti: anche Stati che storicamente hanno avuto contrasti con Gerusalemme Ovest (le petromonarchie arabe, la stessa India, eccetera) si mostrano pronti a riconsiderare e a ridiscutere le proprie posizioni.

Valutare la portata strategica della supremazia informatica d’Israele non è compito facile, data la scarsa chiarezza delle informazioni disponibili e il continuo accrescimento delle cybercapacità offensive di altre potenze (fra cui emerge uno spicchio d’Asia particolarmente imprevedibile). Si possono però stimare gli effetti su due fronti cruciali per la geopolitica israeliana: quello dell’estremismo musulmano e quello con gli Stati Uniti.

A oggi, Israele non ha ancora manifestato formalmente l’intenzione di utilizzare le sue capacità informatiche in un’offensiva contro le organizzazioni palestinesi nemiche. Non è sbagliato ipotizzare che la riduzione della fornitura di elettricità a Gaza a giugno sia una risposta all’attacco alle infrastrutture energetiche subìto da Israele nel gennaio 2016. Un utilizzo sistematico di queste capacità – palese o celato che sia – rientra inoltre nella logica del monitoraggio e del contenimento delle minacce terroristiche (Hamas, Jihad islamica e Stato Islamico su tutti). La dimensione cibernetica rivestirà con tutta probabilità un’importanza fondamentale nell’eventuale escalation militare con Hezbollah, con cui le tensioni al confine con il Libano vanno sempre più aumentando.

Quanto agli Stati Uniti, Israele ha recentemente perfezionato un protocollo d’intesa con Washington per il monitoraggio e il contrasto delle minacce informatiche, siglato niente meno che da Thomas Bossert, consigliere per l’antiterrorismo del presidente Donald Trump. L’accordo è stato reso pubblico durante la Cyber Week 2017 di Tel Aviv; prevede tra gli altri punti il monitoraggio sistematico delle minacce comuni, la condivisione di informazioni e la pianificazione di azioni mirate.

Il cyberaccordo Usa-Israele lascerà tracce profonde. Innanzitutto, esso punta alla creazione di un oligopolio dominante poiché unisce lo storico primato cibernetico statunitense (supportato da un congruo complesso di risorse militari e infrastrutturali) alla fresca eccellenza israeliana, che in pochi anni ha reso il paese mediorientale seconda potenza informatica al mondo. Senza dimenticare che fra i due attori c’è ben più di un’intesa tecnologica: c’è, nonostante le immancabili divergenze, una solida alleanza. Tale fattore contribuirà a saldare l’asse cibernetico fra lo Stato ebraico e la superpotenza a stelle e strisce, stringendo i bulloni della cooperazione fra i rispettivi apparati di sicurezza e approfondendo la tendente simmetria nelle visioni geopolitiche di questi ultimi.

Valga per tutti il caso dell’Iran, nemico d’elezione d’Israele e nuovamente di moda tra i bersagli – per ora solo retorici – della Casa Bianca. Peraltro, la Repubblica Islamica dopo aver subìto l’attacco di Stuxnet ha considerevolmente rafforzato le proprie capacità cibernetiche, candidandosi a diventare l’avversario numero uno dello Stato ebraico anche nel cyberspazio – anche se non tutti concordano sulla potenza informatica iraniana.

Se e quando la questione siriana si sgonfierà, la rivalità fra Israele e Iran potrebbe dunque tornare alla ribalta proprio a partire dal meno controllato spazio cibernetico. Ora più che mai, lo Stato ebraico può tramutare rapidamente uno strumento di benessere economico e soft power in un pericolosissimo strumento offensivo.

Con il quale potenzialmente scrivere i futuri equilibri del Medio Oriente.

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