Alberto Negri : articoli sull'Isis, Barcellona , mondo arabo

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Alberto Negri - I nemici dell'Isis sono i "nostri" nemici


Lontano dalle piazze europee attanagliate dall’inquietudine per la minaccia terroristica, una parte del mondo musulmano combatte la “sua” guerra all’Isis. Un conflitto sanguinoso ma anche ambiguo dove si confrontano eserciti, milizie e potenze straniere, in una contrapposizione etnica e settaria che cambia gli assetti del Medio Oriente, non ancora i confini ufficiali. Ma quella che vediamo sulla mappa è ormai una regione virtuale, riflesso su uno specchio deformante di quello che era un decennio fa il Levante arabo.
È paradossale ma lo Stato che in apparenza ne sta uscendo meglio è il più debole di tutti, il Libano, sconvolto negli anni 70-80 da una guerra civile senza quartiere, governato da un artificioso sistema di ripartizione confessionale del potere per tenere insieme 18 comunità religiose e una società frammentata. Un Paese di quattro milioni di abitanti che accoglie un milione di rifugiati siriani. Eppure oggi l’esercito libanese e gli Hezbollah sciiti vanno a caccia di jihadisti: finora lo hanno fatto insieme ma nell’ultima offensiva il governo di Beirut ha tenuto a separare la sua posizione da quella della guerriglia sciita e del regime di Assad. Sono gli americani che dal 2006 hanno fornito al Libano più di 1,5 miliardi in assistenza militare.
Quindi il governo libanese fa finta di non avere bisogno di coordinarsi con gli Hezbollah filo-iraniani mentre gli americani fanno finta di lanciare un’operazione anti-terrorismo senza le milizie sciite sul campo, nemici giurati dei jihadisti sunniti, i più coriacei avversari di Israele e dei sauditi, i maggiori alleati di Washington nella regione. In Libano gli Hezbollah sono una sorta di Stato nello Stato e nel 2006, con la guerra dei 33 giorni contro Israele, hanno toccato l’apice della popolarità anche tra i sunniti, poi precipitata perché le milizie dipendono strettamente dall’Iran e dal regime di Damasco la cui sopravvivenza per Hezbollah è vitale.
Tutto cominciò nella Città del Sole, dove alle colonne e ai cortili maestosi dei templi di Giove e di Bacco i seguaci dell’occulto attribuiscono poteri magici. Fu a Baalbek, l’antica Heliopolis, che nei primi anni ’80 arrivarono, con l’appoggio dei siriani, i primi Pasdaran, le guardie della rivoluzione iraniana. Nella moschea lo sceicco al-Tufeili catturava folle di giovani sciiti con le parole d’ordine di Khomeini e ancora oggi il volto severo dell’Imam Musa Sadr è accoppiato alla foto di Nasrallah. È attraverso la Siria che arrivavano uomini e armi iraniane nella valle della Bekaa, come si è visto molte volte nei conflitti con Israele. Nel 2006 i siriani di Assad accolsero i rifugiati libanesi e le famiglie degli Hezbollah che poi hanno ripagato il regime di Damasco combattendo strenuamente contro i ribelli sunniti nelle montagne del Qalamoun.
È qui, tra la Bekaa e il Qalamoun, che stanno risalendo le truppe libanesi e degli Hezbollah nella caccia ai jihadisti. L’operazione è stata preceduta da un’offensiva militare compiuta proprio dagli Hezbollah che ha costretto i miliziani affiliati ad al-Qaida ad abbandonare la città di Arsal. Toccherà adesso all’esercito libanese attaccare l’Isis. Ma non c’è ancora la carneficina che forse tutti si aspettavano perché in seguito a un accordo con gli Hezbollah e il regime di Assad il fronte Tahrir al-Sham, concorrente di al-Qaida, ha già evacuato 8mila combattenti con i loro familiari nella città siriana del Nord di Idlib, nuova capitale del jihadismo.
Paradossalmente oggi forse l’unico elemento che impedisce una deflagrazione dello scontro frontale tra Washington e Teheran è la presenza dello Stato islamico, nemico tanto dell’Occidente quanto dell’Iran sciita. Ma cosa accadrà una volta che sarà sconfitto?
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Alberto Negri - Perché il jihadismo sopravvive alle sconfitte

L’Isis può perdere la partita in Iraq e in Siria, ma la sua ideologia resiste. Sarebbe una pericolosa illusione pensare che una sconfitta militare del Califfato possa costituire la fine del jihadismo, ideologia che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, dal Nordafrica al Sahel fino a penetrare mortalmente in Europa con la propaganda tra i giovani musulmani di seconda generazione che sfrutta l’emarginazione e le spinte al nichilismo, e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie novecentesche. Per usare le parole di Olivier Roy, uno dei massimi studiosi del fenomeno, si tratta di un’islamizzazione dell’antagonismo piuttosto che una radicalizzazione dell’Islam storico. Il jihadismo viaggia sul web e galleggia anche sui nostri vuoti di senso. Non finirà presto.
Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da al-Qaida, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Bin Laden in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001. Le tracce di al-Baghdadi, autoproclamato califfo dato più volte per morto, sono svanite ma nessuno, dopo gli attentati in Spagna, può pensare che la sua scomparsa rappresenterebbe quella dell’Isis.
Sono passati 16 anni dall’inizio della guerra al terrorismo lanciata dagli Usa in Afghanistan e non solo questa non è terminata ma gli stessi americani mostrano una sostanziale indifferenza ai guai che con la guerra del 2003 in Iraq hanno provocato in Medio Oriente, trascinando il terrorismo in Europa. Nel 2014 sono stati a guardare l’ascesa dell’Isis senza fare nulla. Oppure a Washington sono solo realisti: siamo di fronte a problemi e interessi, che non si risolvono con un’amministrazione presidenziale.
Perché i jihadisti continueranno a costituire un problema? I cambiamenti sono continui anche nella galassia jihadista ma di solito ci limitiamo ad analizzarli quando esplodono in casa nostra. Abbiamo sempre parlato di antagonismo tra Isis e al-Qaida, un bipolarismo che finora ci ha fatto comodo per spiegare gli eventi. Ma anche qui c’è una trasformazione. Dal gennaio scorso in Siria si è formato un ampio fronte Hayat Tahrir al-Sham con circa 30mila combattenti che diventerà cruciale in quel governatorato di Idlib che sta diventando la nuova capitale del jihad, a stretto contatto con il confine turco.
Tra poco forse dovremo fare i conti con un jihad diffuso che si affiancherà ai marchi di fabbrica conosciuti dell’Isis e di al-Qaida. E anche l’Isis cercherà nuovi santuari fuori da Siria e Iraq. I candidati sono lo Yemen, dove l’Arabia Saudita non riesce a vincere contro gli Houthi sciiti, la Libia, il Sahel ma anche il Sinai, area strategica tra Egitto, Israele e Palestina, una sorta di “no man’s land” dove la branca egiziana dell’Isis è responsabile dei più sanguinosi attentati degli ultimi anni.
Il jihadismo non si fermerà domani perché viene da lontano e la sua crescita ci riguarda direttamente. A Damasco si trova la tomba di Ibn Tamiyyah, teologo sunnita morto nel 14° secolo, ispiratore di molti movimenti integralisti contemporanei. È singolare ma significativo che nella Siria di oggi il suo sepolcro sia ridotto a una lapide sbreccata, quasi illeggibile tra l’erba alta e gli sterpi. Questo voluto stato di abbandono, agli occhi dei sunniti, è simbolo evidente dell’empietà del regime di Damasco, una delle tante ragioni profonde per cui i jihadisti anti-Assad vogliono eliminare il clan degli alauiti.
Ma chi ha sostenuto questi movimenti radicali per abbattere Assad, alleato dell’Iran, se non la Turchia, il Qatar, l’Arabia, con l’esplicita approvazione di Usa ed europei? Taymiyya viene citato nei comunicati dei jihadisti per giustificare la guerra santa a sciiti e alauiti, oltre che naturalmente a tutti gli altri miscredenti. Tutto ciò però non sarebbe bastato a fare del jihadismo un’ideologia vincente se non ci fosse stata l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979.
È in Afghanistan che è caduto il vero Muro, dieci anni prima di quello di Berlino, quando la vittoria dei mujaheddin, alleati dell’Occidente, sull’Armata Rossa è stata resa possibile dai petrodollari dell’Arabia che impone l’ortodossia del wahabismo, ideologia fondante del regno dei Saud: tutti quelli che non aderiscono a questo dogma sono definiti ipocriti, eretici o miscredenti. Il vero monoteista deve uniformarsi alla sharia che deve essere applicata alla lettera. È questa l’ideologia di al-Qaida che è poi stata trasferita all’Isis di al-Baghdadi e alla galassia jihadista.
La lotta al jihadismo, dal punto di vista militare, di sicurezza e culturale, la dovrebbero fare anche i nostri alleati arabi, compratori di armi e partner d’affari, che manovrano questi movimenti. Ecco un’altra ragione che alimenterà ancora a lungo il jihadismo. Basta saperlo.
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18 agosto alle ore 8:01 ·
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Alberto Negri - Jihadisti di Spagna
L’attentato sulle Ramblas di Barcellona, una delle più celebri arterie metropolitane del mondo, cuore della vita e della movida catalana, è sconvolgente ma non imprevedibile. Soprattutto se - come lascerebbe pensare la rivendicazione subito avanzata dall’Isis - venisse accreditata la matrice jihadista. A parte gli avvertimenti della Cia alle autorità spagnole sulle possibilità di un attentato a Barcellona, la Spagna è da lungo tempo nel mirino.
In Spagna sono stati arrestati 636 jihadisti dopo gli attentati alla stazione di Madrid del marzo 2004, in cui rimasero uccise quasi 200 persone e 2.000 feriti. Al -Qaida e lo Stato Islamico hanno una rete di propaganda diffusa e penetrante con cui hanno reclutato diversi jihadisti per combattere in Siria e in Iraq. Unostudio dell’Instituto Elcano ha rilevato che dei 150 jihadisti arrestati in Spagna negli ultimi quattro anni 124 erano collegati allo Stato islamico e 26 ad al-Qaida.
Non bisogna mai dimenticare che cosa significa la penisola iberica nell’immaginario del mondo musulmano su cui puntano le organizzazioni terroristiche di matrice islamica:questo è al-Andalus, nome che gli arabi hanno dato a quei territori di Spagna, Portogallo e Francia occupati dai conquistatori musulmani (conosciuti anche come Mori) dal 711 al 1492. Molti musulmani credono che i territori islamici perduti durante la riconquista cristiana della Spagna appartengano ancora al regno dell’Islam e i più radicali sostengono che la legge islamica dia loro il diritto di ristabilirvi la dominazione musulmana.
Un concetto che emerge in maniera molto chiara nei materiali di propaganda dell’Isis.«Riconquisteremo Al Andalus, col volere di Allah. O carissimo al-Andalus! Pensavi che ti avessimo dimenticato ma quale musulmano potrebbe dimenticare Cordoba e Toledo», si afferma in un video dello Stato islamico. In un opuscolo diffuso dallo Stato islamico si legge che dalla creazione dell’Inquisizione spagnola nel 1478, la Spagna «ha fatto di tutto per distruggere il Corano». Si dice poi che la Spagna ha torturato i musulmani e li ha bruciati vivi. Pertanto, secondo i jihadisti, «la Spagna è uno Stato criminale che usurpa la nostra terra». Il testo esorta esplicitamente i militanti al terrorismo e a «perlustrare rotte aeree e ferroviarie per compiere attentati».
Che un attentato fosse nell’aria lo confermano anche i recenti arresti in Spagna di jihadisti di origine marocchina, una cellula dell’Isis che agiva tra Palma di Maiorca, Madrid, la Gran Bretagna e la Germania. Uno degli arrestati si era recato in varie occasioni a Palma di Maiorca per avviare la struttura terroristica che avrebbe dovuto seminare il terrore nell’isola delle Baleari. Tre dei membri della cellula inoltre sono protagonisti come attori di un video di propaganda, pubblicato su un canale con oltre 12mila sottoscrittori, che mostra il processo di radicalizzazione di un giovane musulmano in Spagna che decide di andare a combattere in Siria. Ma questo non è stato certo l’unico caso. In primavera proprio a Barcellona erano stati arrestati alcuni jihadisti marocchini che erano presenti il 22 marzo 2016 a Bruxelles, nel giorno del duplice attentato dell’Isis all’aeroporto Zaventem
e alla metro.
La Spagna tra l’altro è considerata dai gruppi jihadisti uno degli alleati degli americani nella lotta al terrorismo: presente in Medio Oriente con le truppe in Iraq e in Libano, gli spagnoli hanno il loro fronte più vulnerabile nel Maghreb per la vicinanza geografica al Marocco e le enclave di Ceuta e Melilla, proprio nel territorio del regno alauita. Le statistiche sono abbastanza esplicite: quasi oltre il 45% di tutti i jihadisti arrestati in Spagna è nato in Marocco, il 39% in Spagna e solo il 15% in altri Paesi. Consapevole della centralità della lotta al terrorismo il governo spagnolo nel 2014 ha persino avviato un’applicazione per smartphone, AlertCops, per coinvolgere i cittadini nella segnalazione alla polizia di sospetti jihadisti. Ma restano tutte le difficoltà dei servizi di sicurezza di prevenire un attacco terroristico da parte di piccole cellule o di “lupi solitari”, come hanno dimostrato gli eventi di Parigi, Londra, Manchester, Nizza, Colonia, Berlino, Stoccolma. E ora la ferita del terrore insanguina Barcellona, su quella Rambla, lunga più di un chilometro, che collega
Plaça de Catalunya al vecchio porto. Rambla, un nome che deriva proprio dall’arabo e che in queste ore segna un tragico destino.
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