Generali statunitensi guidano una rivolta senza precedenti di Amir Oren
Quando si mette insieme un uomo dell’ottocento e i poteri del
ventunesimo secolo il risultato è Donald Trump. E quando si rifiuta di
accettare Donald Trump si ottiene il più stupefacente fenomeno della
settimana: lo schieramento pubblico dei Capi di Stato Maggiore Congiunti
contro il loro comandante in capo.
Questo non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti. Mai prima
generali e ammiragli sono stati così uniti. C’è stata una “rivolta degli
ammiragli” contro la riduzione delle forze navali a favore dei
bombardieri dell’aviazione; e i Capi di Stato Maggiore Congiunti hanno
operato insieme contro il capo Colin Powell e il presidente George W.
Bush sul tema delle armi nucleari tattiche nelle forze di terra.
Ma non ci sono precedenti per questo fronte unito, una provocazione
calcolato contro il presidente che è in grado – legalmente e per
temperamento – di licenziarli tutti, anche se ciò significasse le
dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis.
Tweet invece di obbedienza: è questo ciò che Trump ha ricevuto questa
settimana dai capi di stato maggiore delle Operazioni della Marina
statunitense, del Corpo dei Marine, dell’esercito e dell’aviazione
statunitensi, assieme al capo della Guardia Nazionale.
E’ tutta colpa dei bavaresi, ovviamente. Rimandarono il nonno di
Trump, Friedrich, nel paese da cui era emigrato quando scoprirono che
non aveva fatto il servizio militare. Se il nonno non fosse tornato
negli Stati Uniti i Trump sarebbero rimasti in Germania. E’ affascinante
chiedersi con chi si sarebbero identificati durante il regno di Hitler.
Donald Trump, nato un anno dopo la fine della seconda guerra
mondiale, è cresciuto nella casa di un magnate del settore immobiliare,
noto per discriminare contro gli affittuari neri. Quando Trump dichiara
“Rendiamo nuovamente grandi gli Stati Uniti”, o indossa il suo berretto
rosso con lo slogan in lettere bianche, il suo intento è chiaro: rendere
di nuovo bianchi gli Stati Uniti. Se fosse tornato su una macchina del
tempo alla guerra civile statunitense indubbiamente avrebbe preferito
essere Jefferson Davis – presidente degli Stati Confederati tra il 1861 e
il 1865 – piuttosto che Abraham Lincoln, che liberò gli schiavi.
C’è una grande ironia nello scontro di Trump con alti ufficiali delle
forze armate per i suoi commenti sugli eventi di Charlottesville.
Trump, che per un piede malato evitò la coscrizione durante la guerra
del Vietnam, va a nozze con l’atmosfera militare. E’ uno stratega da
poltrona la cui poltrona capita si trovi nell’ufficio più importante del
mondo.
Lì fa il generale e conia frasi allitterative come “fuoco e furia” e
“pronti a combattere” [‘locked and loaded’ nell’originale – n.d.t.].
Tuttavia ora è lui il bersaglio di fuoco e furia da parte degli stessi
ufficiali che ammira tanto, e mentre continua a dilettarsi di quelli che
abbracciano l’eredità della ribellione del Sud di 150 anni fa, è lui
stesso oggetto di una ribellione (pur se solo verbale).
Non è uno sviluppo ovvio, perché l’esercito statunitense è per natura
conservatore, austero, che santifica la tradizione. Tutti i cambiamenti
sociali cui si è abituato gli sono stati imposti dall’esterno, da
presidenti o da leggi del Congresso. Anche quando è stato alla testa del
cambiamento, non lo ha fatto volontariamente ma vi è stato trascinato
da ordini.
E’ difficile abbattere le divisioni tra i rami delle forze armate,
tra ufficiali e soldati, tra uomini e donne. E l’esercito è tuttora
fondamentalmente un’organizzazione sudista. Gli stati del Sud sono
rappresentati in misura sproporzionata dall’ubicazione di basi, campi e
quartier generali. Lo stesso Pentagono; residenze di alti ufficiali; la
Base Congiunta Langley Eustis; la Flotta dell’Atlantico a Norfolk e
altro, tutte sono in Virginia. Lo stesso vale per la Carolina del Nord e
del Sud, la Georgia, l’Alabama, il Mississippi, la Louisiana, la
Florida. E la maggior parte delle basi è intitolata a generali
Confederati, comandanti nemici nella guerra civile.
Ci sono due motivi principali per questo: dinastie familiari dei
generali di George Washington, un abitante della Virginia, sino alla
quarta e quinta generazione, e il potere del Congresso di nominare,
finanziare e mantenere basi – per garantire occupazione a elettori
locali – anche quando non sono necessarie, e mantenerle significa meno
soldi per attività di sicurezza più importanti.
Il Sud ha raramente sconfitto parlamentari veterani, vecchi e anche
molto anziani, la cui posizione ha aiutato i loro elettori. I rami
separati dell’esercito erano fieri dei loro patroni: membri del
Congresso della Virginia e della Georgia. Ed essi, a causa della guerra
civile e del Repubblicano Lincoln, appartenevano al Partito Democratico,
che conteneva le tendenze contraddittorie dell’apertura del Nord e
dell’Ovest e del razzismo del Sud.
Quella era la situazione che avevano di fronte i presidenti
Democratici. Quando Lyndon B. Johnson volle ammorbidire l’opposizione
dei senatori Democratici ad approvare le leggi sui diritti civili, egli
dovette tener conto che essi erano i più forti sostenitori della guerra
del Vietnam. Dovette scegliere le sue priorità: il progresso sociale
vinse, ma gli fece perdere la presidenza.
Poiché i Democratici del Sud erano identificati con il peggior genere
del razzismo, nei primi anni ’30 Franklin D. Roosevelt ebbe la
brillante idea di creare un’alleanza politica tra tutti gli
ostracizzati: neri, iscritti ai sindacati, cattolici (irlandesi,
italiani), ebrei. La sua vittoria pose fine a dodici anni di dominio
Repubblicano. Nel corso della seconda guerra mondiale egli costrinse
l’esercito ad arruolare soldati neri e a farli partecipare ai
combattimenti, non solo a compiti d’ufficio e a servizi ausiliari, quasi
sempre in unità separate, sotto comandanti bianchi.
La partecipazione dei neri statunitensi alla guerra contribuì a
giustificare la loro rivendicazione di libertà in un paese che si
supponeva lottasse per la libertà in tutto il mondo. Nel 1948 (e solo
dopo che il baseball aveva cancellato i suoi “confini di colore”) il
presidente Harry S. Truman costrinse l’esercito a por fine alla
segregazione delle razze nei suoi ranghi. L’esercito obbedì. Questo non
aiutò i soldati neri fuori dalle loro basi nel Sud, dove la
discriminazione rimase, non solo nel Profondo Sud ma anche in uno stato
di confine nord-sud come il Maryland. Quando il comandante
dell’Accademia Navale statunitense scoprì che ai cadetti della marina
era rifiutato l’ingresso in bar di Annapolis bisbigliò una minaccia di
vietare ai colleghi bianchi di visitarli. I proprietari si piegarono.
Ufficiali neri comandarono con successo battaglioni misti in Vietnam,
ma di nuovo fu un presidente Democratico, Jimmy Carter, che dovette
promuovere un’ondata di ufficiali neri al rango di generali. Carter
nominò Clifford Alexander primo Segretario dell’Esercito nero degli
Stati Uniti, nel 1977. Alexander ordinò discriminazioni riparatrici
riguardo a promozioni di colonnelli a generali di brigata, sulla via
alla nomina a maggior generali. In conseguenza ufficiali esperti e
sofisticati come Colin Powell, che in precedenza erano destinati ad
andare in pensione da colonnelli, furono promossi alle posizioni più
alte: generali a quattro stelle.
Powell – consigliere per la sicurezza nazionale verso la fine
dell’amministrazione del presidente Ronald Reagan – restò nell’esercito
anche quando George H.W. Bush gli offrì la posizione di capo della CIA o
vicesegretario di stato e alla fine fu nominato presidente dei Capi di
Stato Maggiore Congiunti. La sua personalità vincente e il suo successo
nella guerra del Golfo del 1991 attirarono la generazione successiva di
neri che si chiedevano se studiare in un’accademia militare per quattro
anni o servire per un periodo da venti a quarant’anni.
Ciò non cambiò la natura conservatrice dell’esercito; semplicemente
aggiornò la politica sulle donne nelle unità di combattimento e sui gay;
la vecchia discriminazione contro gli ebrei era già scomparsa, sulla
base della promozione di David L. Goldfein e di altri. Quando Bill
Clinton fu eletto successivo presidente Democratico (un uomo del Sud,
come ogni presidente dopo John F. Kennedy, fino a quando Barack Obama
non interruppe la sequenza) incontrò un’opposizione forte e uniforme
degli alti ufficiali alla politica del “non chiedere, non dire” (DADT)
sul servizio militare dei gay, bisessuali e lesbiche, che era permissiva
per il suo tempo (1994).
Giovani sergenti furono impressionati dal presidente; generali e
colonnelli meno, e restarono ribelli. Erano anche arrabbiati contro
Clinton – e contro Dick Cheney e Newt Gingrich – che erano tutti
impegnati in studi avanzati quando loro erano impantanati tra Saigon e
Da Nang durante la guerra del Vietnam.
L’esercito statunitense collasserebbe se i soldati neri se ne
andassero domani per protesta contro il tacito sostegno ai razzisti del
loro comandante in capo: sono uno su cinque nelle forze di terra; uno su
se nell’aviazione e nella marina e uno su dieci nei Marine. Il comando
militare non può permettersi una simile frattura.
John Kelly è il primo generale in servizio come capo dello staff
della Casa Bianca da quando Alexander Haig lavorò per Richard Nixon.
Haig ebbe un grande ruolo nel trasferire il governo da Nixon, che si
dimise nel 1974, al suo vicepresidente, Gerald Ford. Kelly può trovarsi
in una situazione simile tra Trump e il vicepresidente Mike Pence.
Chi vive di Twitter cade per Twitter. Per tutta la settimana Trump è
stato sempre più sotto attacco Twitter da parte dei generali. Il maggior
generale Malcom Frost, fino a poco tempo fa portavoce dell’esercito, ha
scritto mercoledì via Twitter: “Pochi sanno meglio dell’Esercito che i
nostri nemici & avversari risiedono fuori dai nostri confini, non
all’interno. Gli statunitensi devono unirsi come un uomo solo.
Orgoglioso della guida dei nostri Capi Congiunti, dell’Esercito che
guidano, della Costituzione che serviamo & dei valori e ideali che
sono il nostro fondamento”. Solo una posizione, la più alta, la fonte di
tutti gli ordini, non è stata citata.
Questa è una crisi di valori che gli Stati Uniti non hanno mai
conosciuto in precedenza, perché non hanno mai conosciuto un personaggio
come Trump.
Amir Oren è corrispondente capo ed editorialista di Haaretz e
membro del comitato di redazione del giornale. Scrive su affari militari
e della difesa, sul governo e le relazioni internazionali.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Haaretz
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.
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