Generali statunitensi guidano una rivolta senza precedenti di Amir Oren


Quando si mette insieme un uomo dell’ottocento e i poteri del ventunesimo secolo il risultato è Donald Trump. E quando si rifiuta di accettare Donald Trump si ottiene il più stupefacente fenomeno della settimana: lo schieramento pubblico dei Capi di Stato Maggiore Congiunti contro il loro comandante in capo.
Questo non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti. Mai prima generali e ammiragli sono stati così uniti. C’è stata una “rivolta degli ammiragli” contro la riduzione delle forze navali a favore dei bombardieri dell’aviazione; e i Capi di Stato Maggiore Congiunti hanno operato insieme contro il capo Colin Powell e il presidente George W. Bush sul tema delle armi nucleari tattiche nelle forze di terra.
Ma non ci sono precedenti per questo fronte unito, una provocazione calcolato contro il presidente che è in grado – legalmente e per temperamento – di licenziarli tutti, anche se ciò significasse le dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis.
Tweet invece di obbedienza: è questo ciò che Trump ha ricevuto questa settimana dai capi di stato maggiore delle Operazioni della Marina statunitense, del Corpo dei Marine, dell’esercito e dell’aviazione statunitensi, assieme al capo della Guardia Nazionale.
Robert B. Neller: “Non c’è posto per l’odio razziale o l’estremismo nel Corpo dei Marine. I nostri valori chiave di Onore, Coraggio, e Dedizione inquadrano il modo in cui i Marine vivono e agiscono”.
Ammiraglio John RIchardson: “Eventi a Charlottesville inaccettabili e non devono essere tollerati. La Marina è schierata contro l’intolleranza e l’odio”.
E’ tutta colpa dei bavaresi, ovviamente. Rimandarono il nonno di Trump, Friedrich, nel paese da cui era emigrato quando scoprirono che non aveva fatto il servizio militare. Se il nonno non fosse tornato negli Stati Uniti i Trump sarebbero rimasti in Germania. E’ affascinante chiedersi con chi si sarebbero identificati durante il regno di Hitler.
Donald Trump, nato un anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, è cresciuto nella casa di un magnate del settore immobiliare, noto per discriminare contro gli affittuari neri. Quando Trump dichiara “Rendiamo nuovamente grandi gli Stati Uniti”, o indossa il suo berretto rosso con lo slogan in lettere bianche, il suo intento è chiaro: rendere di nuovo bianchi gli Stati Uniti. Se fosse tornato su una macchina del tempo alla guerra civile statunitense indubbiamente avrebbe preferito essere Jefferson Davis – presidente degli Stati Confederati tra il 1861 e il 1865 – piuttosto che Abraham Lincoln, che liberò gli schiavi.
C’è una grande ironia nello scontro di Trump con alti ufficiali delle forze armate per i suoi commenti sugli eventi di Charlottesville. Trump, che per un piede malato evitò la coscrizione durante la guerra del Vietnam, va a nozze con l’atmosfera militare. E’ uno stratega da poltrona la cui poltrona capita si trovi nell’ufficio più importante del mondo.
Generale Joseph Lengyel: “Sono schierato con i miei colleghi Capi Congiunti nel condannare razzismo, estremismo e odio. La nostra diversità è la nostra forza”.
Generale Mark A. Milley: “L’esercito non tollera razzismo, estremismo o odio nei nostri ranghi. E’ contro i nostri Valori e tutto ciò per siamo schierati dal 1775”.
Lì fa il generale e conia frasi allitterative come “fuoco e furia” e “pronti a combattere” [‘locked and loaded’ nell’originale – n.d.t.]. Tuttavia ora è lui il bersaglio di fuoco e furia da parte degli stessi ufficiali che ammira tanto, e mentre continua a dilettarsi di quelli che abbracciano l’eredità della ribellione del Sud di 150 anni fa, è lui stesso oggetto di una ribellione (pur se solo verbale).
Non è uno sviluppo ovvio, perché l’esercito statunitense è per natura conservatore, austero, che santifica la tradizione. Tutti i cambiamenti sociali cui si è abituato gli sono stati imposti dall’esterno, da presidenti o da leggi del Congresso. Anche quando è stato alla testa del cambiamento, non lo ha fatto volontariamente ma vi è stato trascinato da ordini.
E’ difficile abbattere le divisioni tra i rami delle forze armate, tra ufficiali e soldati, tra uomini e donne. E l’esercito è tuttora fondamentalmente un’organizzazione sudista. Gli stati del Sud sono rappresentati in misura sproporzionata dall’ubicazione di basi, campi e quartier generali. Lo stesso Pentagono; residenze di alti ufficiali; la Base Congiunta Langley Eustis; la Flotta dell’Atlantico a Norfolk e altro, tutte sono in Virginia. Lo stesso vale per la Carolina del Nord e del Sud, la Georgia, l’Alabama, il Mississippi, la Louisiana, la Florida. E la maggior parte delle basi è intitolata a generali Confederati, comandanti nemici nella guerra civile.
Ci sono due motivi principali per questo: dinastie familiari dei generali di George Washington, un abitante della Virginia, sino alla quarta e quinta generazione, e il potere del Congresso di nominare, finanziare e mantenere basi – per garantire occupazione a elettori locali – anche quando non sono necessarie, e mantenerle significa meno soldi per attività di sicurezza più importanti.
Il Sud ha raramente sconfitto parlamentari veterani, vecchi e anche molto anziani, la cui posizione ha aiutato i loro elettori. I rami separati dell’esercito erano fieri dei loro patroni: membri del Congresso della Virginia e della Georgia. Ed essi, a causa della guerra civile e del Repubblicano Lincoln, appartenevano al Partito Democratico, che conteneva le tendenze contraddittorie dell’apertura del Nord e dell’Ovest e del razzismo del Sud.
Quella era la situazione che avevano di fronte i presidenti Democratici. Quando Lyndon B. Johnson volle ammorbidire l’opposizione dei senatori Democratici ad approvare le leggi sui diritti civili, egli dovette tener conto che essi erano i più forti sostenitori della guerra del Vietnam. Dovette scegliere le sue priorità: il progresso sociale vinse, ma gli fece perdere la presidenza.
Poiché i Democratici del Sud erano identificati con il peggior genere del razzismo, nei primi anni ’30 Franklin D. Roosevelt ebbe la brillante idea di creare un’alleanza politica tra tutti gli ostracizzati: neri, iscritti ai sindacati, cattolici (irlandesi, italiani), ebrei. La sua vittoria pose fine a dodici anni di dominio Repubblicano. Nel corso della seconda guerra mondiale egli costrinse l’esercito ad arruolare soldati neri e a farli partecipare ai combattimenti, non solo a compiti d’ufficio e a servizi ausiliari, quasi sempre in unità separate, sotto comandanti bianchi.
La partecipazione dei neri statunitensi alla guerra contribuì a giustificare la loro rivendicazione di libertà in un paese che si supponeva lottasse per la libertà in tutto il mondo. Nel 1948 (e solo dopo che il baseball aveva cancellato i suoi “confini di colore”) il presidente Harry S. Truman costrinse l’esercito a por fine alla segregazione delle razze nei suoi ranghi. L’esercito obbedì. Questo non aiutò i soldati neri fuori dalle loro basi nel Sud, dove la discriminazione rimase, non solo nel Profondo Sud ma anche in uno stato di confine nord-sud come il Maryland. Quando il comandante dell’Accademia Navale statunitense scoprì che ai cadetti della marina era rifiutato l’ingresso in bar di Annapolis bisbigliò una minaccia di vietare ai colleghi bianchi di visitarli. I proprietari si piegarono.
Ufficiali neri comandarono con successo battaglioni misti in Vietnam, ma di nuovo fu un presidente Democratico, Jimmy Carter, che dovette promuovere un’ondata di ufficiali neri al rango di generali. Carter nominò Clifford Alexander primo Segretario dell’Esercito nero degli Stati Uniti, nel 1977. Alexander ordinò discriminazioni riparatrici riguardo a promozioni di colonnelli a generali di brigata, sulla via alla nomina a maggior generali. In conseguenza ufficiali esperti e sofisticati come Colin Powell, che in precedenza erano destinati ad andare in pensione da colonnelli, furono promossi alle posizioni più alte: generali a quattro stelle.
Powell – consigliere per la sicurezza nazionale verso la fine dell’amministrazione del presidente Ronald Reagan – restò nell’esercito anche quando George H.W. Bush gli offrì la posizione di capo della CIA o vicesegretario di stato e alla fine fu nominato presidente dei Capi di Stato Maggiore Congiunti. La sua personalità vincente e il suo successo nella guerra del Golfo del 1991 attirarono la generazione successiva di neri che si chiedevano se studiare in un’accademia militare per quattro anni o servire per un periodo da venti a quarant’anni.
Ciò non cambiò la natura conservatrice dell’esercito; semplicemente aggiornò la politica sulle donne nelle unità di combattimento e sui gay; la vecchia discriminazione contro gli ebrei era già scomparsa, sulla base della promozione di David L. Goldfein e di altri. Quando Bill Clinton fu eletto successivo presidente Democratico (un uomo del Sud, come ogni presidente dopo John F. Kennedy, fino a quando Barack Obama non interruppe la sequenza) incontrò un’opposizione forte e uniforme degli alti ufficiali alla politica del “non chiedere, non dire” (DADT) sul servizio militare dei gay, bisessuali e lesbiche, che era permissiva per il suo tempo (1994).
Giovani sergenti furono impressionati dal presidente; generali e colonnelli meno, e restarono ribelli. Erano anche arrabbiati contro Clinton – e contro Dick Cheney e Newt Gingrich – che erano tutti impegnati in studi avanzati quando loro erano impantanati tra Saigon e Da Nang durante la guerra del Vietnam.
L’esercito statunitense collasserebbe se i soldati neri se ne andassero domani per protesta contro il tacito sostegno ai razzisti del loro comandante in capo: sono uno su cinque nelle forze di terra; uno su se nell’aviazione e nella marina e uno su dieci nei Marine. Il comando militare non può permettersi una simile frattura.
John Kelly è il primo generale in servizio come capo dello staff della Casa Bianca da quando Alexander Haig lavorò per Richard Nixon. Haig ebbe un grande ruolo nel trasferire il governo da Nixon, che si dimise nel 1974, al suo vicepresidente, Gerald Ford. Kelly può trovarsi in una situazione simile tra Trump e il vicepresidente Mike Pence.
Chi vive di Twitter cade per Twitter. Per tutta la settimana Trump è stato sempre più sotto attacco Twitter da parte dei generali. Il maggior generale Malcom Frost, fino a poco tempo fa portavoce dell’esercito, ha scritto mercoledì via Twitter: “Pochi sanno meglio dell’Esercito che i nostri nemici & avversari risiedono fuori dai nostri confini, non all’interno. Gli statunitensi devono unirsi come un uomo solo. Orgoglioso della guida dei nostri Capi Congiunti, dell’Esercito che guidano, della Costituzione che serviamo & dei valori e ideali che sono il nostro fondamento”. Solo una posizione, la più alta, la fonte di tutti gli ordini, non è stata citata.
Maggior generale Malcom Frost: “Pochi sanno meglio dell’Esercito che i nostri nemici & avversari risiedono fuori dai nostri confini, non all’interno. Gli statunitensi devono unirsi come un sol uomo”.
“Orgoglioso della guida dei nostri Capi Congiunti, dell’Esercito che guidano, della Costituzione che serviamo & dei valori e ideali che sono il nostro fondamento.”
Questa è una crisi di valori che gli Stati Uniti non hanno mai conosciuto in precedenza, perché non hanno mai conosciuto un personaggio come Trump.
Amir Oren è corrispondente capo ed editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Scrive su affari militari e della difesa, sul governo e le relazioni internazionali.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Haaretz    
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

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