Paola Caridi : la Storia si ripete. Al Jazeera e Israele
E così è ufficiale. Israele ha fatto
partire la procedura per chiudere l’ufficio di Al Jazeera e revocare il
permesso stampa della tv del Qatar, la prima tv panaraba nella storia
dei media della regione. Lo ha confermato il ministro delle
comunicazioni, Ayoub Kara. Chiusura non imminente, ha precisato alla
Reuters, perché l’iter avrà bisogno di tempo.
La stretta su Al Jazeera avviene a pochi giorni dalla conclusione
(temporanea?) della crisi sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme.
Coincidenze temporali? Difficile crederlo, perché nella storia di Al
Jazeera i problemi che di volta in volta la tv ha avuto con le autorità
di molti dei paesi in cui ha operato sono stati dovuti proprio alla
gestione delle notizie, e al peso specifico che Al Jazeera ha nel
pubblico arabo. Le immagini delle proteste, delle preghiere di massa
attorno alle mura della Città Vecchia di Gerusalemme da parte dei
palestinesi musulmani (con l’appoggio dei palestinesi cristiani) hanno
avuto un impatto indiscutibile, nell’opinione pubblica panaraba. In una
fase delicata nei rapporti tra i paesi del Golfo, tra il blocco
saudita-emiratino e il Qatar, la chiusura dell’ufficio di Al Jazeera in
Israele non potrà non suscitare reazioni. Staremo a vedere.
Spulciando nell’archivio dei miei articoli su Al Jazeera, ne ho
trovato uno pubblicato quindici anni fa (sì, ben quindici anni fa)
pubblicato dal mai dimenticato Diario della Settimana diretto da Enrico
Deaglio. Le cose, in fondo, non sono poi cambiate tanto dal punto di
vista dei rapporti tra Al Jazeera e le diverse autorità che guidano i
paesi ospitanti. Al netto, ovviamente, di tutto ciò che è successo dopo:
l’invasione anglo-americana dell’Iraq (pochi mesi dopo la pubblicazione
di quest’articolo), la caduta di Saddam, le rivoluzioni, la tragedia
siriana, il disastro mediorientale. Al Jazeera, di uffici chiusi, ne ha
sperimentati già molti.
Buona lettura.
Al Jazeera, l’Iraq e il pubblico arabo
IL POSTINO SUONA SEMPRE DUE VOLTE
(da Il Diario della Settimana, 2002)
Nel bazaar di Baghdad dicono si trovi di tutto. Anche le
videocassette “pirata” con i programmi registrati di Al Jazeera. Da
guardarsi lontano dagli occhi indiscreti del regime, visto che in Iraq –
per avere un’antenna parabolica – ci vuole un permesso speciale. La tv
via satellite, per il regime di lunga data di Saddam Hussein, è un
pericolo. Si chiami CNN o Al Jazeera, BBC o MBC, che sia serva del
diavolo americano o araba al 100%, la televisione che arriva da oltre
confine è sempre fuori dal controllo del rais di Baghdad e
della sua cerchia. Meglio, quindi, dare in pasto ai sudditi iracheni le
immagini scolorite e stantie dell’emittente pubblica, che offre da anni
sempre lo stesso bouquet: il sorriso di Saddam in una riunione con i suoi più stretti collaboratori, oppure la performance di qualche cantante iracheno.
In un posto dove tutto si trova, anche se a carissimo prezzo, è certo
possibile anche trovare un piatto per il satellite. Tanto è vero
questo, che al Zawra, il settimanale dell’Unione Irachena dei
Giornalisti di proprietà di uno dei figli di Saddam, Uday, ha ricordato
ai concittadini che mettersi in casa la parabolica richiede un permesso.
Senza precisare, però, quali siano i requisiti per ottenere l’agognato
foglio di carta.
Da almeno undici anni, Saddam conosce bene il valore delle immagini
che corrono per il mondo rimbalzando da un ripetitore all’altro. Per la
Tempesta nel Deserto fece il patto col demonio, e concesse all’allora
anchorman di punta della CNN, Peter Arnett, di fornire al mondo le
immagini del bombardamento di Baghdad. Sperando, forse, che questo
avesse un effetto dirompente sulle masse, com’era successo con i
reportage filmati che arrivavano, vent’anni prima, nelle case degli
americani.
Il suo tentativo, allora, fu un vero e proprio flop. Ma il rais
di Baghdad ha sempre continuato a crederci, agli effetti della tv sul
pubblico. Tanto è vero che proprio lui è stato, involontariamente, a
fare da volano per il successo internazionale di Al Jazeera. Perché la
tv via satellite del Qatar, divenuta famosa in Occidente per un altro
bombardamento, quello di Kabul nell’ottobre dell’anno scorso, e per un
altro personaggio luciferino, Osama Bin Laden, famosa nel mondo arabo lo
era già da almeno tre anni. Da quando, nel dicembre del 1998, era stata
l’unica emittente sul suolo iracheno a filmare Desert Fox,
l’operazione “Volpe del Deserto” con la quale gli angloamericani
risposero all’abbandono dell’Iraq da parte degli ispettori dell’Unscom.
Un bombardamento durato 70 ore, durante le quali i caccia gettarono sul
territorio iracheno 600 bombe a guida laser, le navi lanciarono 325
missili Tomahawks e i B52 colpirono il Paese con altri 95 missili
Cruise. Una vera e propria santabarbara, insomma, con cui si dovevano
annientare i centri nevralgici del potere di Saddam: la guardia
repubblicana, i servizi segreti, il partito Ba’th.
A documentare i bombardamenti e i loro effetti non c’era più la Cnn.
Peter Arnett avrebbe di lì a poco concluso il suo rapporto con il
network di Ted Turner. E in Iraq, allora, si affacciò sul panorama del
broadcasting la piccola Al Jazeera, inaugurata appena due anni prima dal
nuovo emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, anche lui
da appena un anno al potere, dopo aver detronizzato il padre.
Per la tv via satellite di Doha, l’Iraq rappresentò due scoop nel giro di venti giorni. Il primo, con la copertura della Desert Fox. Il secondo, il 5 gennaio del 1999, con il discorso di Saddam Hussein in occasione della giornata delle forze armate, che il rais
preferì dare ad Al Jazeera prima di farlo trasmettere dalle tv irachene
(compresa quella via satellite). Un discorso che fu una “chiamata alle
armi” per le masse arabe, incitate a rovesciare i regimi che non si
erano opposti all’attacco angloamericano. Strana coincidenza: dopo venti
giorni, alla riunione dei ministri degli esteri della Lega Araba al
Cairo, fu presente per la prima volta da nove anni, dall’invasione del
Kuwait, il capo della diplomazia irachena. E Kuwait e Arabia Saudita, a
fasi alterne, si sono risentiti per come Al Jazeera ha descritto nel
corso degli anni la dura vita dei civili iracheni sotto le sanzioni.
Dalle immagini di Desert Fox sembrano passati anni luce. Gli
anni che separano il giornalismo televisivo arabo prima della
rivoluzione di Al Jazeera al fiorire di network che nella regione
vogliono contrastare il primato di quel manipolo di giornalisti di Doha,
provenienti da tutti i paesi dell’area e da un solo tipo di scuola,
quello stile BBC. Ma Saddam è ancora lì, a Baghdad, e a Baghdad si
continuano a respirare quei venti di guerra che porteranno, quasi
sicuramente entro pochi mesi, i bombardieri angloamericani sui cieli
iracheni per un’altra operazione in grande stile.
Chi ci sarà lì, a filmare i traccianti della contraerea nel buio
della notte irachena? Forse non la CNN, che non è più l’unico strumento
per far sapere al mondo cosa fanno le bombe targate US. Non i reporter
di Atlanta, che parlano in inglese a un pubblico indifferenziato sparso
per i quattro angoli della Terra e che probabilmente verranno appaiati,
da Saddam, all’amministrazione Bush. Decisamente meglio Al Jazeera, che
parla arabo a un pubblico arabo che non va solo dal Marocco agli
Emirati. Ma che è diffusa in tutti i paesi occidentali, dove c’è
un’antenna parabolica che porta nelle case degli arabi di Berlino
piuttosto che di quelli Boston una versione dei fatti che non parte da
una prospettiva americana. Né dall’aplomb britannico della BBC. Ma da
una visione sostanzialmente panaraba. Creando quello strano trait d’union
che due studiosi egiziani in terra americana, Mohammed El Nawawy e Adel
Iskandar, hanno definito in un libro tutto dedicato ad Al Jazeera –
uscito da poco negli Usa – come la “nozione di un destino comune”. Come
un corpo fatto di acqua, “dove ogni increspatura si diffonde e si
ripercuote sulla superficie”. Così le onde della tv di Doha si propagano
nella magmatica audience araba.
E così “la Penisola” si prepara alla guerra. Come si deve.
Attrezzandosi per tempo come aveva fatto a Kabul, piazza snobbata dai
network occidentali e poi percorsa in lungo e in largo dal circo dei
reporter di guerra, dopo che i direttori si era accorti che
l’Afghanistan era diventato “la notizia” e avevano dato finalmente il
permesso di andare. L’ufficio di Baghdad è diventato uno tra i più forti
uffici di corrispondenza della tv via satellite del Qatar. Quattordici
persone, di cui quattro giornalisti, assieme a operatori e tecnici.
Un’operazione per la quale, secondo le ultime notizie, Al Jazeera
avrebbe messo in campo attrezzature da un milione di dollari. “Abbiamo
una situazione molto, molto buona, a Baghdad”, conferma il capo
dell’ufficio di corrispondenza di Al Jazeera al Cairo, uno dei più
importanti e delicati per la tv qatariota. Dal suo studio affacciato sul
Nilo, Hussein Abdel Ghani è sicuro che – nel caso di una operazione
militare americana – Al Jazeera “userà tutte le potenzialità per avere
una copertura esclusiva” in Iraq. Dove sono state organizzate
infrastrutture, attrezzature tecniche e risorse umane per far fronte a
quello che riserverà la cronaca.
A dire il vero, qualche problema con le autorità del regime iracheno
c’è stato, negli ultimi mesi. Nel luglio scorso, per la precisione,
quando un suo giornalista iracheno, Dyar al Umari, ha ricevuto l’aut
aut: nessuna trasmissione per dieci giorni. Salvo poi revocare, a
stretto giro di posta, la censura. Le contromisure decise dal quartier
generale della tv a Doha erano state a dir poco severe, e cioè di
chiudere le attività della Penisola in Iraq se non fosse rientrata la
“punizione” per Umari.
A determinare il risentimento delle autorità irachene, è stato il
modo di lavorare di al Umari, forse troppo giornalistico. Il cartellino
giallo per Umari, insomma, era stato emesso perché il reporter aver
chiamato il rais di Baghdad solo col nome e cognome, o con il
semplice appellativo di “presidente iracheno”, invece di utilizzare la
lunga e pleonastica formula ufficiale. O, anche, per non aver chiamato
il partito di Saddam nel modo appropriato, il Partito arabo socialista
Ba’th. Sottigliezze da regime, a cui – come in un gioco di sponda sul
tavolo da biliardo – ha risposto Uday, il figlio di Saddam deputato a
guidare e controllare il mondo dei media, che su uno dei suoi giornali,
il Babil, ha stigmatizzato la censura ricordando che era stata
proprio Al Jazeera a “trasmettere l’intero discorso” di Saddam Hussein
nel 1998, “creando un precedente non solo per Al Jazeera ma anche per i
canali arabi e stranieri”. L’editoriale del foglio di Uday, però, non ha
certo fatto un favore ad Al Jazeera, visto che ha indicato la presenza
di un “coordinamento tra il canale e i funzionari per l’informazione”
del partito Ba’th. “Quale beneficio traiamo, scrive insomma
l’opinionista Safa Al Hirmizi, a chiudere porte che non dobbiamo
chiudere mentre ci sono molti canali che operano fuori dal nostro
controllo, come ABC, CNN, CBS, BBC?”
Poco da temere, quindi, per le sorti di Al Jazeera a Baghdad. Anche
perché, come sostiene Abdel Ghani, veramente l’Iraq potrebbe fare a meno
di Al Jazeera, e cioè di un attore considerato ora molto influente in
tutto il mondo arabo e di una tv considerata come una “fonte molto
affidabile”? Certo che no, è l’ovvia risposta.
Non solo rispetto a tre anni fa, ma anche rispetto al 2000, quando
ebbe inizio la seconda Intifada e cominciò la vera ascesa di Al Jazeera,
il network di Doha è ora diventato una vera e propria potenza. 350
persone a Doha e 50 corrispondenti che lavorano da 31 paesi in tutto il
mondo, dagli Stati Uniti all’Indonesia, con un potenziale bacino di
utenza di un miliardo e duecento milioni di persone: tutti i musulmani
che potrebbero sapere l’arabo classico del Corano. Una potenza che,
nonostante continui a essere finanziariamente dipendente dall’emiro del
Qatar, si è in sostanza affrancata dal suo stesso mecenate. Che sul
lavoro della sua tv dice ben poco, finché non tocca gli affari interni
del paese, perché proprio questo potere di Al Jazeera si è trasmesso al
piccolo emirato, e ha fatto guadagnare al giovane sceicco un posto
d’onore nel consesso dei paesi arabi. Altrimenti impensabile senza la
fama guadagnata sul campo dalle immagini con il logo di Al Jazeera.
Lo si è visto proprio nelle scorse settimane. E proprio sulla
questione irachena. Quando, nel giro di pochissimi giorni, il regime
qatariota si è trovato – a causa delle notizie di stampa rimbalzate in
tutto il mondo – nella scomoda condizione di chi si trova in mezzo a due
fuochi. Tra Washington e Baghdad. Prima le indiscrezioni sull’ira
funesta di Saddam, che avrebbe minacciato il ministro degli esteri del
Qatar – andato a trovarlo a fine agosto per trovare un bandolo alla
crisi con gli Usa – di distruggere il suo emirato se l’attacco americano
fosse partito dalla piccola penisola affacciata sul Golfo Persico. Poi,
subito dopo, a rincarare la dose arriva la notizia che un terzo del
comando militare americano responsabile dell’area si sarebbe, entro
novembre, trasferito da Tampa, in Florida, alla base di Al Udeid, a
poche decine di chilometri da Doha. Dove gli americani hanno già
portato, dalla primavera in poi, attrezzature tecnologiche
sofisticatissime e hanno costruito la più lunga pista d’atterraggio nei
deserti arabici.
Di tutto ciò, di tutto il disagio diplomatico del Qatar rispetto a
una buona parte del mondo arabo, già critico perché l’emiro continua a
mantenere relazioni con Israele, Al Jazeera non sembra aver risentito
per niente. Non è, insomma, il Qatar che crea problemi ad Al Jazeera.
Semmai è Al Jazeera che, talvolta, crea qualche frizione diplomatica tra
il Qatar e, di volta in volta, gli altri partner arabi. Le ultime
proteste, in ordine di tempo, sono arrivate da Giordania e Arabia
Saudita. Alla fine di giugno il regime di Ryadh si è infuriato per una
trasmissione in cui un fuoruscito saudita a Londra ha parlato male del
principe ereditario Abdullah. Risultato: il Qatar non è stato inserito
nel tour di paesi visitati poco dopo dal ministro degli esteri saudita
Saud al Faisal. Due mesi dopo, ad agosto, l’ufficio di Amman di Al
Jazeera è stato chiuso perché il network avrebbe diffamato la famiglia
reale, aggiungendo in questo modo l’ennesima puntata al cahier des dolehances della
monarchia giordana nei confronti della tv di Doha. Immediata la
ricaduta sul piano diplomatico, con il richiamo in patria
dell’ambasciatore giordano in Qatar.
Il fascicolo riguardante Al Jazeera sul tavolo di Reporters Sans Frontieres
è, insomma, tra i più voluminosi, con casi di censure, arresti,
chiusure di uffici di corrispondenza. Su tutto quanto aleggia poi, da un
anno, la continua frizione con gli americani successiva agli attentati
dell’11 settembre, ai video di Bin Laden e alla copertura
dell’operazione in Afghanistan. Il punto più alto dello scontro è stato
il bombardamento dell’ufficio di Kabul di Al Jazeera, poco meno di un
anno fa. Ma le ricadute continuano ancora oggi, con l’arresto di un
assistente cameraman di nazionalità sudanese. Sami al Haj si troverebbe
infatti – secondo le informazioni della tv qatariota – tra i 600
prigionieri detenuti a Guantanamo. Arrestato il 15 dicembre in
territorio afghano al confine col Pakistan, al Haj è riuscito a
trasmettere un messaggio alla moglie per farle sapere di essere nella
base americana a Cuba, sede della più grande prigione antiterrorista mai
messa in piedi dagli Usa. Del suo uomo, Al Jazeera riesce a sapere
qualcosa solo ad aprile. A giugno viene assicurato al network
dall’ambasciata americana di Doha che avrebbe interessato il
dipartimento di Stato. Dopo di che, più nulla. Reporters Sans Frontieres
ha adottato il caso che, attraverso il suo segretario generale Robert
Ménard, ha lanciato a metà settembre un duro attacco alle autorità
americane. “Questo continuo silenzio è spiacevole soprattutto perché
potrebbe venir visto come un tentativo di vessazione verso Al Jazeera,
che è stata già considerata un obiettivo delle pressioni del
dipartimento di Stato statunitense”.
Tradotto in termini più crudi, Al Jazeera continua a dar fastidio a
Washington. Peccato che, per uno strano paradosso, Al Jazeera continui a
dar fastidio a quasi tutti. Anche nel mondo arabo. Per rendere più
palpabile l’immagine che il network qatariota ha nella sua audience, è
molto facile che un egiziano descriva il suo rapporto con Al Jazeera nel
modo seguente: “Non amiamo vederla. Siamo costretti a vederla”. Come
dire: per ricevere informazioni continue, up-to-date, bisogna
sintonizzarsi sulle frequenze di Al Jazeera. Ma spesso, per i sentimenti
nazionali, quello che si vede non è piacevole. E non è comodo.
Come un fiume carsico, è sempre la vicenda legata agli attentati
dell’11 settembre a fare da cartina di tornasole per quello che sta
succedendo ad Al Jazeera e ai suoi fedelissimi telespettatori. Una delle
leggende metropolitane più in voga al Cairo, dopo i numerosi video di
Bin Laden e Al Qaeda, e soprattutto dopo la vicenda di Ramzi Binalshib,
lo yemenita arrestato in Pakistan dopo la notizia di un’intervista alla
tv di Doha, è che Al Jazeera sia troppo americana. Anzi, che sia
addirittura pagata dalla Cia.
La stessa che, per la gente della strada,
avrebbe organizzato il crollo delle Twin Towers assieme al Mossad…
A incappare in questa situazione è stato lo stesso reporter investigativo di Al Jazeera, Yosri Fouda, il creatore di Top Secret,
uno dei programmi più seguiti. Egiziano, laureato in uno dei centri più
quotati per il giornalismo tv, il Kamal Adham Center dell’American
University del Cairo diretto da Abdallah Schleifer, Fouda è stato
inviato di guerra in Bosnia ed educato sul campo alla scuola della Bbc,
per poi diventare il capo dell’ufficio di Londra e, lo scorso giugno,
fare lo scoop della sua vita: intervistare due leader di Al Qaeda che
si sono definiti gli organizzatori degli attentati dell’11 settembre.
Uno scoop pompato dall’emittente di Doha proprio a ridosso del primo
anniversario della catastrofe sul suolo americano. Non passano che
pochissimi giorni, e uno dei due intervistati viene arrestato dalla
polizia pakistana. Fouda nega qualsiasi legame tra l’intervista e
l’arresto, visto che l’incontro con i due terroristi si è svolto a
giugno. Certo è che a qualcuno, tra i fiancheggiatori dell’islamismo
estremista, questa coincidenza non è piaciuta. Come dimostrano le velate
minacce contenute in un sito fondamentalista.
Tutto questo avviene in una contraddizione continua e costante con la
razionalità individuale di ogni singolo telespettatore e con quello
che, comunque, si pensa del lavoro giornalistico condotto per esempio da
Al Jazeera in Palestina. Un lavoro che, tutti riconoscono, ha fatto sì
che la questione palestinese fosse quotidianamente messa all’ordine del
giorno delle cancellerie di tutto il mondo, perché le telecamere con il
logo della Penisola sono sempre lì, a filmare l’assedio di Arafat così
come la repressione di Tsahal verso i palestinesi.
Eppure, da Al Jazeera non si può prescindere, ora, nel mondo arabo.
Perché la sua è stata una rivoluzione culturale e sociale da cui nessuno
potrà tornare indietro. Anzi. Ormai da più di un anno, il modello Al
Jazeera è quello che tutti debbono seguire, nel broadcasting.
Lo ha fatto Abu Dhabi, con una tv via satellite che dà del filo da
torcere ai colleghi di Doha. Lo sta facendo la Mbc, con soldi sauditi e
sede a Dubai, da dove l’11 settembre ha fatto una copertura
dell’anniversario di livello simile a quello di Al Jazeera, come
conferma Humphrey Davies, il direttore della rivista accademica più
accreditata e informata sul mondo della tv araba, il Transnational Broadcasting Journal
dell’Adham Center. In una staffetta ideale, impensabile solo due anni
fa, Al Jazeera e Mbc si sono contesi gli stessi commentatori e analisti
su questi dodici mesi del post-11 settembre.
Com’è normale per le tv
europee. Come sta diventando quasi normale per questa parte del mondo. E
chissà che l’Iraq, purtroppo, non diventi il banco di prova per il
nuovo giornalismo di marca araba.
Pubblicato in Medioriente politico
Una storia che si ripete, e che continua. Dagli archivi, ho ritrovato un mio articolo vintage.
Al
Jazeera, la storia continua 6 agosto 2017 - Paola E così è ufficiale.
Israele ha fatto partire la procedura per chiudere l’ufficio di Al
Jazeera e revocare il permesso stampa della tv del Qatar,…
invisiblearabs.co
2
In
an effort to repair the damage to his image caused by the Temple Mount
crisis, Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu announced that he will
attempt to shut down Al Jazeera's Israel bureau, again.
al-monitor.com
Commenti
Posta un commento