Fulvio Scaglione : Iran, Hezbollah, Putin




Una delle tante conseguenze della guerra in Siria è di aver profondamente modificato non solo il ruolo ma anche la natura dell’Hezbollah libanese. Prima di intervenire a sostegno di Bashar al Assad, le truppe dell’Esercito di Dio erano in sostanza una milizia di auto-difesa a base etnico-religiosa e/o, come sostengono Usa, Regno Unito, Olanda, Canada, Israele e Australia (ma non i principali Paesi europei e neppure la Ue), un’organizzazione terroristica.

Combattendo Israele, nel 1982 e ancor più nel 2006, Hezbollah è riuscito a costruirsi un’immagine di esercito parallelo, capace di difendere con le armi gli interessi della nazione anche quando l’esercito libanese vero non poteva o non voleva farlo.


Ma con la guerra in Siria è cambiato tutto. Sotto molti punti di vista. Militare: i guerriglieri di Hezbollah, abituati a combattere solo sul terreno collinare del Sud del Libano, in Siria hanno fatto esperienza di battaglie nel deserto (Palmira), tra le montagne (Qalamoun) e nel contesto urbano (Al Qusair); e battendosi accanto a un esercito regolare come quello siriano e a reparti d’élite come quelli russi hanno migliorato l’approccio tattico e strategico alla battaglia. Hezbollah ha dato un contributo decisivo alla causa di Assad, sacrificando molti dei suoi. Dati ufficiali non ce ne sono ma è largamente accreditata l’idea che il Partito di Dio abbia perso tra 1.300 e 1.500 uomini. Questo, insieme con l’alleanza con la Russia e il sostegno dell’Iran, l’ha trasformato da attore locale (protagonista delle crisi tra Israele e Libano ma solo di quelle) in attore regionale voglioso di giocare un ruolo assai più ampio di prima. Sono gli uomini di Hezbollah, per fare un solo esempio, a istruire i combattenti Houthi che, nello Yemen, rendono così difficile la campagna militare dell’alleanza sunnita guidata dall’Arabia Saudita. Culturale: l’arrivo di 1,5 milioni di profughi siriani in un Paese che ha 4,4 milioni di abitanti, ha destato in Libano tensioni etniche e religiose molto inquietanti. A gettare benzina sul fuoco hanno provveduto le infiltrazioni di terroristi di Al Qaeda o Isis nei campi profughi, con relativi attentati, e gli interventi spesso brutali dell’esercito regolare libanese, accusato da molte organizzazioni umanitarie di torture e uccisioni. Tutto questo, di riflesso, ha fatto crescere in Libano il “prestigio” di Hezbollah, impegnato appunto a combattere Al Qaeda e Isis in Siria.


Nulla di tutto questo avrebbe più importanza, però, se fosse proprio il Libano a saltare. Da questo punto di vista, quindi, le vere insidie per Hezbollah non vengono da fuori, nemmeno dal nemico giurato Israele, ma da dentro, soprattutto dal senso di inferiorità e frustrazione dei sunniti. Hezbollah domina ormai anche il quadro politico, soprattutto da quando è riuscito a far eleggere alla Presidente l’alleato Michel Aoun e a ottenere la maggioranza dei ministeri nel Governo che pure è guidato da Saad Hariri, figlio di quel Rafik Hariri che fu premier a sua volta e che della Siria di Assad era avversario almeno quanto era amico dell’Arabia Saudita. Hariri padre fu assassinato (insieme con altre 21 persone) nel febbraio 2005 da sicari che secondo molti erano stati appunto inviati dalla Siria. Questo per dire quanto Hariri figlio abbia dovuto concedere a Hezbollah per tornare a quel governo da cui lo stesso Hezbollah l’aveva cacciato nel 2011.

Così, per la prima volta nella sua storia politica (e in quella di tutta la famiglie) Saad Hariri contestato dai suoi stessi seguaci, che vorrebbero un confronto più aperto con il potere dilagante degli sciiti di Hezbollah. Un nervosismo ormai evidente, che rischia di travasarsi alla società intera. Non bisogna dimenticare, infatti, che a dispetto di Hezbollah il Libano non è mai stato tanto sunnita come oggi. La popolazione sunnita è di poco inferiore a quella sciita, ma la maggioranza dei profughi siriani (1,5 milioni, come si diceva) è a sua volta sunnita, come la quasi totalità degli oltre 400 mila profughi di lunga data palestinesi che vivono in 12 campi profughi sparsi per il Paese.


Non sarebbe difficile, in una simile situazione, far partire la scintilla capace di incendiare i rapporti. Così non è stato, finora. E il paradosso è che i rischi potrebbero aumentare, e non diminuire, il giorno in cui in Siria si smettesse di combattere e la fine del clima di guerra lasciasse di colpo le mani libere a chi ha molto e vuole tutto (Hezbollah) come a chi aveva molto e non vuole perdere nulla (sunniti).



Si è svolto nei giorni, scorsi, a Zurigo, il quarto Forum Europa – Iran, con un titolo significativo: Investimenti e commercio post-sanzioni. È chiaro che gli uomini d’ affari iraniani ed europei non vedono l’ora di ristabilire normali relazioni commerciali. Prima che il Paese degli ayatollah fosse bersagliato dalle sanzioni internazionali, l’Unione Europea era il suo principale partner negli scambi. Cambiata la situazione, sono stati Emirati Arabi Uniti e Cina a farla da padrone, con il 23,6 e il 22,3 per cento rispettivamente dell’interscambio commerciale con l’ Iran.
Da quando, nel luglio del 2015, Barack Obama siglò l’accordo sul nucleare iraniano, gli europei si sono lanciati all’inseguimento. Nel 2016 le esportazioni dall’ Iran verso l’ Europa sono aumentate del 344 per cento (per il 77 per cento petrolio) e quelle dell’Europa verso l’Iran del 27 per cento (in gran parte macchinari industriali e veicoli da trasporto). A favorire la Ue in questa corsa agli affari è stata la posizione americana: il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) siglato da Obama valeva per le sanzioni internazionali (cioè quelle decise in sede Onu nel 2006 e nel 2010), ma non aboliva le sanzioni separatamente varate dagli Usa. Così gli uomini d’ affari americani si sono trovati con le mani ancora legate mentre quelli europei no.
Anche per questo, oltre che per questioni di principio, la diplomazia europea ha difeso a spada tratta l’accordo del 2015 contro Donald Trump, il nuovo presidente americano che invece lo considera (l’ha detto di recente anche all’Onu) «il peggior accordo mai firmato dagli Stati Uniti d’America».
La domanda ora è: che cosa potrebbe succedere se, come molti pensano, Trump dovesse revocare l’accordo? Per gli americani poco o nulla. Ma il governo Usa potrebbe sanzionare le aziende europee che fanno affari con l’Iran impedendo loro di lavorare negli Usa o con aziende americane, come è già successo in passato. Il che imporrebbe alle stesse aziende una scelta dolorosa tra il business con l’Iran e quello, di certo più stimolante, con un colosso dell’economia come gli Usa.
Ancora una volta, quindi, si propone la dicotomia tra l’interesse nazionale americano e quello collettivo degli europei. Ora che anche nell’amministrazione americana si aprono crepe sull’atteggiamento da tenere con l’Iran (John Mattis, l’ex generale dei marine che ora è ministro della Difesa, si è detto a favore della conservazione dell’accordo), la diplomazia degli affari diventa ancor più importante.
Pubblicato in Babylon, il blog di Terrasanta.net


Il presidente russo è ancora, per molti versi un mistero. Non è chiaro come sia arrivato al potere, e non è chiaro su cosa si regga il suo consenso. Ma di sicuro…
non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, mamma mia che paura, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero perché l’Occidente ha  adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato Presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni.

Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a Vova venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione.
Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano: da delegato del Dipartimento per la gestione delle proprietà presidenziali (giugno 1996) a primo ministro (agosto 1999), passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del Consiglio di sicurezza. Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del Governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse. E poi, certo: 31 dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa Presidente.

Insomma: Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale? A questo passaggio dieci anni fa ho dedicato quasi metà di un libro (“La Russia è tornata”) e la mia tesi è che Putin non è un carrierista di successo ma un uomo scelto e allevato per il Cremlino. Da chi? Da chi comandava all’inizio degli anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevamo più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il Paese.
Dico tutto questo per un solo motivo. Ho certo torto, ma se ho ragione sarà meglio mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con la Russia di Vladimir Putin. Perché è chiaro: se Putin è l’astuto arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Ma se non è così… Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un progetto… Allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può star lì un altro bel po’.
Nel 1996 Putin viene chiamato a Mosca, si diceva. E nel 1997 Zbigniew Brzezinsky, ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. Chiaro, no? Sulla Russia Zibi Brzezinsky aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della Ue, per contenerla il più possibile.
Ecco, Putin ha mandato tutto questo a banane. Basta fare un piccolo elenco. Ha stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province. Frammentare la Russia? Addio

Poi ha piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento economico del Paese ma anche per la sua politica estera. Un po’ come la golden share del nostro Governo su Telecom ma con i modi un po’ più spicci della politica russa. Mikhail Khodorkovskij vuole portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera, così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio.
È sul fronte europeo che Putin, secondo me, ha patito ciò che Zibi Brezinsky sperava. La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più Vova riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali (copyright Charles De Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei Paesi usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania.
Anche perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito, insomma. E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che, curiosamente assai, è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio più che di calcio totale

Però Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. Alla spinta americana che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio. L’intesa con l’Iran, la fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici, la diplomazia con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende del mercato mondiale del petrolio hanno trasformato la Russia in un’insidia vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione.
E poi, sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla, Putin si è lasciato portare verso Est, cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal Mar Cinese meridionale alla Siria. Cina che si espande in Africa e in Europa ma intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda.
E poi tante altre cose, belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle polizie, come ci piace raccontare? Se così fosse avremmo di fronte magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!
Vova è bravo, chi può negarlo. Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico e di qualche amico diventato ingombrante. Ma tutto da solo… mah! Resto della mia idea di dieci anni fa. Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che continueremo ad averci a che fare per un bel po’.

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