Hebron : La morte e l’aranciata (di VC)



 

E’ stato quando, parlando di Hebron con un’amica davanti a un campo di basket, spettatrici distratte di un torneo in un pomeriggio domenicale, le ho detto “Questo è forse l’episodio del viaggio che più mi ha segnata e che più mi preme raccontare”, che mi sono resa conto di quanto poco, e a pochi, io stia effettivamente raccontando la mia ultima esperienza in Palestina. Compreso quell’episodio. Questa consapevolezza mi ha colpita come uno schiaffo di vento sulla faccia, in quella giornata di sole tenue e foglie immobili.

Ad Al Khalil la quotidianità non esiste.

Questa sera siamo sorprendentemente lanciati su una prospettiva di spenseriatezza e divertimento.

Shuhada Street si è riaffacciata sulla mia vita, il suo tunnel verde si è riaperto nel mio cuore dopo tre anni di ricordo sofferto, di rabbiosa e paziente attesa. Le vie della città vecchia sono tornate dentro ai miei occhi, con le loro pietre color ocra e le reti che tassellano il cielo in gabbie quadrate sporche di piscio, di immondizia, di uova marce.

Sono di nuovo ad Al Khalil, l’anima in gabbia, la residenza del dolore in Cisgiordania. Ma questa sera, i miei cari amici di qui – visti solo una volta di passaggio, sentiti saltuariamente, e nonostante ciò ora disposti a trovarci una sistemazione, offrirci un pranzo, la loro compagnia – ci portano fuori, a cenare e poi a fumare shisha.

A ridere, a goderci la città, H1, quella dei Palestinesi. Faccio una doccia mezza fredda, mezza gettandomi acqua riscaldata sul fornello da un catino, sperando che il bagno non serva a nessuno dei volontari e pensando che dovrò lavarmi di dosso questa vischiosa sensazione di agitazione e insofferenza e scacciare tutte le immagini tristi dalla testa, per questa notte.

Non ho alternative, perché i miei bagagli sono ancora sotto il sequestro del Ben Gurion, ma lo indosso ugualmente con una punta di vanità, come il vestito buono della festa: l’abito tradizionale palestinese, nero, coi suoi ricami rossi – in verità, non proprio il “tradizionale”, ma una sorta di imitazione, di cotone di pessima qualità prodotto chissà dove, ma il più conveniente, comprato a Gerusalemme come unica possibilità di ricambio che non mi intrappoli le gambe in qualcosa di caldissimo – mi scivola sul corpo. Il rosso mi dona, mi dico, guardandomi nello specchietto del bagno. “Il rosso dà beltà anche a chi non ne ha”, osserva civettuola la voce di mia madre nella mia testa. D’accordo, hai ragione tu. Mi trucco, mi tiro su i capelli, lasciando qualche ciocca fuori. Stasera è una serata di festa, stasera ci si deve sentire freschi e belli.

Izzat arriva nella casa dello Yas, ci dice che Jawad viene a prenderci di sotto in macchina. La sede in cui ci troviamo si trova a Tel Rumeida, su una collinetta dalla quale si vede tutta Al Khalil – il suo corpo flagellato, illuminata distesa orizzontale, le sue colonie che lo trapassano, le luci verdi delle moschee che potrebbero muoversi su di lei come fuochi fatui.

Scendiamo al buio sulle stradine ripide di terra rossa e pietre nascoste tra gli ulivi. Mi aggrappo a Matteo: mi chiedo come potrei muovermi se non ci fosse la sua mano a sostenermi lungo questo percorso in questi giorni. “Hai dato la buonanotte a tua madre?”, mi chiede. “Sì”, rispondo, e ridacchiamo: spieghiamo a Izzat la piccola bugia per non rendere fatale la sua preoccupazione per questo viaggio, “Lei non sa che dormiamo qui, o potrebbe morire di ansia: pensa che alloggeremo a Betlemme”.

Jawad ci aspetta ai piedi dell’altura. Saliamo in macchina, ha la radio accesa e sorride. Siamo elettrizzati, quando mette in moto, all’idea di un’uscita “normale” nella notte di Al Khalil.

Percorriamo le strade di H1, guardiamo dal finestrino i suoi palazzi monotoni, le insegne al neon, le luci dei locali: il pensiero del buio di H2 e delle sue trappole per topi anche in questo chiasso artificiale è una botola oscura mezza aperta dentro al petto. Ma c’è la musica, e ci sono loro che sorridono. C’è lo shisha che ci aspetta, e lo stomaco che inizia a reclamare cibo.

Poi il cellulare di Jawad suona. La radio continua a suonare qualcosa per un po’, poi la mano di Izzat si allunga sulla manovella del volume, e la voce gracchiante lì dentro si attenua fino a spegnersi come il sorriso di Jawad. I nostri sguardi interrogativi in realtà non oserebbero chiedere niente, il tono della voce di Jawad ci basterebbe, ci basterebbe per ora tacere guardando dallo specchietto retrovisore il suo volto che si è fatto di pietra.

Ma Izzat si gira verso di noi e ci traduce l’arabo della telefonata. “Dicono che suo fratello è stato arrestato… E’ la moglie del fratello al telefono…. Hanno appena arrestato il fratello, sotto casa. Yes. Era col figlio, ha tre anni il figlio. Dice che ha fatto un video, ha ripreso l’arresto, sì. Forse lo rilasciano se porta il video.”.

Ci congeliamo, anche i nostri corpi ora si pietrificano. Sento la gamba di Matteo contro la mia diventare di colpo pesante. L’allegria ci scivola dalla pelle e dai vestiti come una polverina d’oro di marca scadente, troppo superficiale per trattenersi su di noi per più di venti minuti. La leggerezza evapora, era così inconsistente da dileguarsi ora insinuandosi attraverso le feritoie degli sportelli chiusi. Mi sento ridicola, intrappolata, dentro al mio vestito della festa. E’ totalmente inopportuno, i suoi ricami rossi e le sue maniche larghe sono offensivi. Mi sembra di essermi vestita in maschera per un appuntamento di lavoro.

Jawad riaggancia. Izzat ci scambia qualche battuta, si guardano seri. Poi si volta verso di noi, e ci racconta cosa è successo. Io che accolgo tutto in questi giorni con una gratitudine stupefatta, mi chiedo perché mai si prenda la briga di tradurci tutto subito piuttosto che preoccuparsi insieme all’amico. “You see”, alza le spalle, “questa è la vita ad Hebron. Non possiamo uscire una sera che succede questo. E’ la nostra vita.”.

Il fratello di Jawad tornava quella sera dai campi, insieme al figlioletto, il piccolo Mohammed, di tre o quattro anni. Proprio sotto alla loro casa c’è un checkpoint, uno dei venti permanenti che costellano le strade e l’esistenza dei Palestinesi qui. Spingeva un carretto di frutta e verdura, pesante. I checkpoint hanno dei tornelli metallici attraverso i quali si passa uno alla volta, i Palestinesi dopo essersi svuotati le tasche, sfilati la cintura, e recitato un codice identificativo – ogni Palestinese di Hebron è diventato una serie di numeri: è un po’ come un tatuaggio, un pezzo di stoffa cucito addosso. Accanto ai checkpoints c’è una via di accesso agevolata per i coloni, invece, che possono attraversarli senza cifre, documenti, e con i loro bei mitra attaccati alla schiena. Nel checkpoint sotto alla casa del fratello di Jawad, Nour, c’è una barra di plastica sulla via privilegiata dei coloni. Si solleva solo per gli ebrei. Ma il piccolo Mohammed di apartheid è ancora inesperto, e allora per agevolare il papà che col carretto attraverso le sbarre metalliche non sarebbe riuscito a passare, ha fatto per toccare la plastica. La punta del mitra di un soldato israeliano gli si è subito appiccicato alla tempia.

Le urla e le lacrime dei genitori sono incontrollabili e fisiologiche come la fame, il sonno, la pipì dei loro bambini. Nour ha urlato di paura. La canna dell’arma sulla testa del figlio ha fatto esplodere nella sua gola la miccia della consapevolezza che ai Palestinesi tutto può succedere, anche essere ammazzati a tre anni per un mucchio di frutta. Quella miccia soffocata ogni giorno da segatura umida di pazienza, resistenza, autocontrollo, si è infiammata: un urlo.

Ma un urlo è un delitto, così come la paura: Nour si è ritrovato coi calzoni abbassati al posto di blocco, e poi caricato su una camionetta militare verso il carcere. Dalla sua finestra, la moglie riprendeva tutto tremante con la videocamera del suo cellulare.

La strada ci scorre accanto, improvvisamente meno luminosa e accogliente. Ho un martello nel cuore che lavora e non sa a che ritmo andare, ma io so che non vorrei essere in altro posto che qui. In nessun altro posto al mondo se non qui, all’interno di questa microstoria nella storia. “La racconterò”, mi dico. “E’ questa la vita che vuoi fare”, mi sussurra una voce, convinta.

Andiamo a cena – ma come andiamo a cena, c’è un arresto, è suo fratello: sì, ma dovremo pur cenare, you see, è la nostra vita, questo è vivere sotto occupazione.

Entriamo in un locale di una catena molto occidentale, molto capitalistica, molto fuori luogo in questo posto, in questo momento, e non solo. Ci si mangia pollo fritto, e patatine, fritte e rifritte. Il mio blocco di pietra nello stomaco mi chiede come potrò mai mangiare ora. “Dobbiamo mangiare”, ci fa Izzat, e il suo tono è irremovibile, come quello che ci si sente mormorare all’orecchio quando in una casa palestinese ti viene offerto il decimo caffè, l’ottavo tè, l’ennesimo frutto o dolce della giornata: “Lo devi accettare”. Dobbiamo cenare. Se non altro, per educazione nei confronti di Jawad, che non ha voluto annullare la serata insieme a noi, e si siede al nostro tavolo con l’orecchio incollato al cellulare.

Tra una telefonata e un’altra, Jawad produce in me quello stupore che renderà questo locale dozzinale, coi suoi avventori arabi che imitano gli americani dei Mc, e il ronzio della luce del bagno a pochi passi da noi che a stare attenti sovrasta la musica, un ricordo bellissimo. Non tocca cibo, lui. Ma scherza. Parla un sacco. Ci racconta barzellette. E io mi incanto ad osservarlo, mentre mi inzuppo le dita unte in una salsina anche lei con ambizioni occidentali: lo ammiro, mentre ci racconta quella di un cittadino di Nablus, uno di Ramallah e uno di Hebron, e ci propina i luoghi comuni sui Nablusi che sono gli stessi dei nostri sui baresi, e sfotte gli Hebronite e la loro inflessione, la lentezza della loro pronuncia, il loro modo comico di allungare pigramente tutte le parole. E’ anche questa, la resistenza? Questo ridere di nulla con degli sconosciuti quando ti hanno arrestato il fratello, ignorando o fingendo di ignorare il mostro di rabbia che ti sta divorando le viscere? Tiro lunghi, lunghissimi sospiri davanti allo specchio del bagno. Guardo come il fermaglio mi tiene ancora in alto i capelli in un’acconciatura che non poteva scegliere serata peggiore per riuscire così bene. Mi sento sempre ridicola, ma un po’ meno, perché gli altri non sembrano farci caso. Eravamo ad una festa e siamo stati interrotti. Israele ci ha interrotti. Non è ridicola la geometria palestinese sul colletto del mio vestito, non lei.

“Non andiamo a fumare shisha”, ci fa Izzat, gentilmente sottolineando una cosa ovvia. Ma quando siamo in macchina aggiunge: “Andiamo a casa di Nour per vedere il video fatto da sua moglie, per capire se è utilizzabile, volete venire con noi?”.

Chiaro che sì. Non altrove.

Parcheggiamo a pochi passi dal checkpoint. La mia borsa sul loro tavolo, la cintura di Matteo, i nostri passaporti tra le loro mani, “Di dove siete?”, osano accennare un sorriso e noi lì ad addomesticare l’odio nelle nostre pance, a dargli carezzine sulla testa e mormorargli “Non adesso”. Poi le cinture di Izzat e Jawad, le loro monetine, i loro codici imparati a memoria. L’odio ha un colore, ed è verde militare.

Davanti alla porta della casa di Nour ci sono due bambine. Ci salutano, poi ci guidano lungo le scale. Una di loro, la più grande, le percorre all’indietro, davanti a me, per guardarmi e sorridere, e fissare la mia pelle troppo bianca, i miei occhi stranieri, i miei capelli stranieri, il mio vestito di imitazione.

Ci portano in un salottino, subito a destra dopo l’ingresso, e ci invitano a sederci. Siamo nella casa dell’arrestato, del pericoloso sovversivo. Il suo grido è stato una violenta aggressione al soldato, al garante della sicurezza. Jawad va in un’altra stanza a parlare con la cognata, Izzat si siede accanto a noi e come noi inizia a scherzare e giocare coi figli di Nour. Le tende pesanti che corrono lungo le due pareti ci separano dalla insostenibile notte piombata su Al Khalil, nera o verde militare.

La bambina ci osserva, poi si scioglie, inizia a parlare in arabo, a fare le moine. La sorellina più piccola si aggira per il salone spingendo una macchinina e ogni tanto ripete “Babà? Babà?”. La grande, nove anni, spiega che lei non sa che il suo babà è stato arrestato, per questo lo cerca. Scompare, e poi rispunta fuori per servirci dell’acqua fresca. In caso gli ospiti abbiano sete, avrà pensato la madre che le ha dato l’ordine. Le nostre gole secche tra i pensieri di una donna col marito dietro alle sbarre per nulla. Bevi, bevi tutto. Hai sete ed è anche la regola dell’accoglienza che lo impone. Ci sarà di fatto un vero e proprio decalogo che a te è in buona parte sconosciuto, in realtà: lo realizzi quando la bambina allunga il braccio per aprire il congelatore, tira fuori una bottiglia colorata, e versa nei bicchieri di tutti aranciata fredda.

Quell’aranciata. Non so ancora se sia stata la più dolce o la più amara della mia vita. La mando giù senza capire, senza spiegarmi perché nella casa di un arrestato io debba bere aranciata fredda e sedere come un’ospite serena. Come si possa avere la forza di versare dell’aranciata a uno sconosciuto quando hai la morte nel cuore. Qui, succede anche questo. C’è la morte e l’aranciata, insieme. Mescolate nel petto di questo popolo che, mentre uno stivale chiodato gli schiaccia la nuca, ti offre da bere una bevanda zuccherata.

Le barzellette e l’aranciata di quella sera. Come potrò raccontare a chi non c’era che la resistenza qui è anche questo? Che non si tratta di un gioco di potere, di una guerriglia, che non è il gingillo con cui gli “attivisti” a cui piacciono gli –ismi e gli intellettuali radical chic si solleticano, ma è diventata un apparato, una componente fisiologica di queste persone, l’essenza intima, la risposta subdermica sulla quale declinano la loro intera esistenza?

Poi si affaccia sull’uscio il musetto di un bimbo. Ha gli occhietti vispi e curiosi, un mezzo sorriso accennato e un po’ stirato dal sonno. “E’ lui Mohammed!”, esclama Izzat. Il terrorista. Il sedizioso ribelle che un’ora e mezza fa aveva un’arma puntata alla tempia. La sua tempia adesso è libera, piccola piccola, sotto ai capelli neri col taglio corto. Ci guarda con sospetto e si ferma di fronte a noi, mantenendo la dovuta distanza. In piedi così è forse meno alto del mitra con cui è stato minacciato.

Lo saprà, che suo babà l’hanno portato in carcere. “You see, it’s our life”, dirà tra qualche anno anche lui. Ma per ora con noi non parla. E allora, per avvicinarlo, mi viene in mente di fare un tentativo, di chiamarlo con quel nomignolo che mi è stato detto appartenere solo ai bimbi che portano il suo nome. Non ne sono più tanto sicura, e soprattutto non so se voglio pronunciarlo qui, adesso. Magari non lo capirà, magari quel soprannome non esiste davvero, e mi guarderà perplesso più di ora mentre io arrossirò. Tiene le sferette nere degli occhi puntate nei miei, ha capito che voglio parlare.

Snocciolo quel nome dai miei anfratti più nascosti, lo tiro fuori dal passato come una corda di piccoli secchi dall’abisso di un pozzo, e la dolcezza delle lettere mi sale lungo la gola, densa, confortevole, con il sapore dei fichi maturi, e le due consonanti vicine mi sigillano teneramente per un istante le labbra come la colla che stilla dalla buccia di quei frutti preziosi.

“Hammoudi”, lo chiamo. “Mio piccolo Mohammed”. Il suo sguardo si illumina, il suo sorrisino si apre in una graziosa finestra, gli sboccia sul volto con la tenerezza di un giglio. Io mi godo quel bagliore – mentre lui finalmente si avvicina e decide di stare con noi – e la delicatezza che mi si adagia dentro lentamente alla scoperta di come una conoscenza così lontana, nel tempo e da me, depositata sotto cumuli di rancore, possa all’improvviso trovare il suo senso di esistere in un salotto ad Al Khalil, ed essere ravvivata inaspettatamente con amore per far sorridere un bambino.

Tutto ha un motivo, è solo il tempo a separare le cause dai loro magici effetti, provo a formularmi nella testa un pensiero simile, che ancora oggi non riesco a replicare per la sua chiarezza di quella sera, mentre Izzat mi fa sorpreso: “Yes, yes, Hammoudi! It means my little Mohammed!”.

Hammoud – la i finale sta per mio, e per addolcire le parole quando stanno per finire – finisce presto per appiccicarsi a Matteo. Lo osserva con ammirazione per la sua altezza, in tutti i movimenti che fa noto che cerca con gli occhi la sua approvazione, anche quando spunta fuori da una dispensa in cui si era nascosto o si rifugia dietro a una tenda, in piedi sul divano.

Io intanto gioco con sua sorella, che mi mostra i suoi nuovi occhiali, poi me li infila sul naso, e io, ormai spavalda nel mio arabo di dieci parole, le domando “Helwa?”. Anche questo è giusto, “Helwa! Helwa!”, mi ripete lei.

Stiamo giocando al gioco di fingere che l’arresto non esista e che babà stia per tornare. Ma il video che Jawad ci mostra dal cellulare di sua cognata non sarà sufficiente come prova: se ti affacci alla finestra quando tuo marito torna a casa, non ti aspetti che gli punteranno delle armi addosso, lo bloccheranno, gli faranno abbassare i pantaloni e poi lo arresteranno. Tra la minaccia a tuo figlio, l’urlo e l’alt dei soldati, hai bisogno di afferrare il telefono e attivare la videocamera. Almeno qualche secondo, si suppone. Sicuramente non puoi documentare il gesto innocuo del tuo bambino di tre anni. Il video della moglie di Nour inizia quando Nour è già in stato di fermo con le braghe tirate giù. “Forse non sarà sufficiente”, commenta Jawad. E lo pensiamo anche noi, ma non osiamo dirlo. Qui la giustizia te la fai riprendendo tu stesso con i tuoi mezzi quello che subisci, altrimenti sei sbattuto in carcere arbitrariamente e nessuno testimonierà in tuo favore. Le prove esistono solo se a vantaggio dei coloni.

Nour infatti resterà in carcere per cinque giorni. Per non aver commesso nulla, assolutamente nulla. Ma cinque notti in una cella, cinque insignificanti notti in prigione, all’interno di una vita reputata insignificante, in un rosario di ingiustizie legate le une alle altre sul filo logoro della sopportazione, cosa potranno mai significare? Un grido sordo in mezzo al vuoto. Un colpo di tosse secca nella calura estiva.

Usciamo di nuovo accompagnati dai bambini. Mohammed resta fino alla fine avvinghiato alla mano di Matteo, lo guarda adorante e non vuole staccarsi da lui. Lasciamo Jawad biascicando dei mesti “Salam”, dire buonanotte al suo volto stanco, distrutto, sarebbe un ricamo fuori luogo in questa notte d’acciaio.

Risaliamo la stradina che ci porta a casa, muti. Il suono dei nostri passi sull’asfalto lo ricordo ancora, come la forma delle nostre ombre lunghe e deboli abbattute dalla furia dei lampioni. La torcia per orientarci in mezzo agli ulivi tra le tenebre, di nuovo la mano essenziale di Matteo che mi tiene su. Quando Izzat ci dà la buonanotte, scrollando ripetutamente le spalle, gli vado incontro e lo abbraccio forte. Assolutamente non convenzionale e forse irrispettosa dei suoi costumi. Ma lui ricambia l’abbraccio, sa che non potremmo parlarci altrimenti questa notte.

A luci spente sulla branda non ho pensato solo a Nour, ma a tutti i Nour distesi come me, come lui, in Palestina in quel momento. Non solo al suo Hammoudi, ma a tutti gli Hammoudi dei loro papà. Il buio di quella notte mi ha bruciato il cuore.

(V.C.)



La morte e l’aranciata (di VC)

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