Umberto De Giovannangeli :L'uscita degli Usa dall'Unesco e il ruolo di Israele nella nuova "guerra diplomatica"

L'Unesco è solo l'inizio. L'inizio di una "guerra diplomatica" che si dipanerà in ogni organismo sovranazionale, in ogni sede nella quale l'Autorità nazionale palestinese, ora rafforzata dall'accordo Fatah-Hamas, cercherà di far valere la propria presenza di "Stato in divenire". Benjamin Netanyahu va all'attacco. Forte del sostegno della potente lobby israeliana all'interno dell'amministrazione Trump, e con un'ambizione non nascosta: l'ingresso d'Israele nel prossimo Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Grazie a fonti bene informate a Gerusalemme e Tel Aviv, l'Huffington Post è in grado di delineare i prossimi passi, e obiettivi, della strategia del primo ministro d'Israele, vero dominus della politica nello Stato ebraico.


L'uscita dall'Unesco da parte Usa, è l'"inizio di una nuova era", si è affrettato a dichiarare il ministero degli Esteri israeliano dopo l'annuncio della decisione presa dalla Casa Bianca di chiamarsi fuori dall'agenzia dell'Onu. E' dal 2011, quando la Palestina divenne membro dell' organizzazione dell'Onu, che gli Stati Uniti hanno smesso di finanziarla pur mantenendo un ufficio nel quartier generale di Parigi. "L'Unesco è diventata il teatro dell'assurdo dove si deforma la storia anziché preservarla", si legge nel comunicato, dove si specifica che il premier Netanyahu ha dato istruzioni al ministero degli Esteri per avviare la procedura di ritiro dall'organizzazione. Una scelta che trova l'assenso anche fuori dalla coalizione di governo. Il ritiro Usa dall'Unesco "a causa delle relazioni con Israele è una decisione "da apprezzare", twitta l'ex ministra degli Esteri, Livni. "E' un messaggio al mondo - ha proseguito - che c'è un prezzo alla politicizzazione, alla storia unilaterale e distorta". Ma più che la storia, è la politica a motivare le scelte di "Bibi", interessato molto più a determinare il futuro che a difendere le memorie, storico-religiose, del passato. La motivazione fondante dell'uscita americana è che le ultime decisioni assunte dall'Unesco sono viziate da un "pregiudizio anti-Israele".


E questa formulazione, "anti-Israele", è già una mediazione diplomatica, perché una parte della coalizione che sostiene Netanyahu, avrebbe voluto che si mettesse per iscritto che le risoluzioni approvate dall'Unesco, in particolare sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, erano viziate da "antisemitismo" mascherato con l'anti-sionismo. Una forzatura che il Dipartimento di Stato, guidato dal moderato Rex Tillerson, ha rigettato per timore di irritare ulteriormente gli alleati arabi, in particolare l'Arabia Saudita, decisivi nella partita che più interessa, sullo scenario mediorientale, sia a Trump che a Netanyahu: quella con l'Iran. Da questo punto di vista, i tempi dell'uscita degli Usa dall'Unesco, e la motivazione "filo-Israele" addotta, vanno calibrati anche alla luce dell'annuncio di oggi fatto da Trump: gli Stati Uniti per ora non abbandonano l'accordo sul nucleare ma faranno il possibile per evitare che l'Iran si doti di armi nucleari. Israele avrebbe voluto una scelta più netta, e immediata, di discontinuità, anche su questo versante, con le scelte operate dall'ex inquilino della Casa Bianca, Barack Obama (una linea, quella della disdetta americana dell'accordo, che trovava convergenti Israele e Arabia Saudita). Ma scegliere questa strada avrebbe significato una rottura con gli altri paesi membri del Gruppo 5+1, in particolare con l'Europa: in questo senso, la decisione di Trump segna un punto a favore delle "colombe" della sua amministrazione che hanno nel Segretario di Stato il loro punto di riferimento. La Palestina "si rammarica" per la decisione "altamente politica" degli Usa di uscire dall'Unesco: lo riferisce il ministero degli Esteri palestinese alla testata online filo-Cremlino Sputnik. "Ci rammarichiamo per la decisione, che è altamente politica in un ente che intende limitare lo scopo del suo operato sulle questioni culturali, dell'istruzione e del patrimonio culturale", fanno sapere dal ministero palestinese.


Ancor più dura la reazione di Berlino: "Il governo tedesco ritiene l'uscita degli Usa dall'Unesco deplorevole: così si dà un segnale sbagliato", dichiara il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert che ha sottolineato "l'importanza del ruolo della cultura in tempi di crisi globale". La goccia che ha fatto traboccare il vaso dell'irritazione d'Israele nei confronti dell'Unesco ha una data e un luogo: sette luglio 2017, Tomba dei Patriarchi, Hebron. L'Unesco ha riconosciuto la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, "sito palestinese" del patrimonio Mondiale. L'Unesco ha dichiarato "patrimonio dell'umanità in pericolo", definendolo luogo "palestinese", la città vecchia e la moschea di Abramo a Hebron. La risoluzione, approvata dalla Commissione del patrimonio mondiale dell'agenzia Onu riunita a Cracovia, inserisce l'area nei luoghi in pericolo. I palestinesi avevano chiesto questa proclamazione, affermando che Hebron rischi di essere distrutta dalle "forze di occupazione israeliane". Il riconoscimento comporterà limitazioni alla costruzione e allo sviluppo della zona e dell'area circostante da parte di Israele, che attualmente ha posti di controllo e strutture militari nel centro storico per proteggere i coloni, nell'unica località in Cisgiordania con insediamenti nel centro della città. Israele aveva fatto una campagna per ottenere che la votazione fosse segreta, cosa che ha ottenuto, ma 12 Paesi hanno appoggiato la proposta, 3 si sono opposti e 6 astenuti. Una decisione "surreale", la definì Netanyahu. "Questa volta - ha tuonato il premier israeliano - hanno deciso che la Tomba dei Patriarchi ad Hebron è un sito palestinese e non ebraico e che è in pericolo". "Non un sito ebraico? Chi è sepolto lì? Abramo, Isacco e Giacobbe, Sarah, Rachele e Lea: i nostri padri e le nostre madri!". "Il sito è in pericolo? Solo quando Israele comanda, come ad Hebron - ha sottolineato - la libertà di religione è garantita per tutti". Entusiasta, sul fronte opposto, l'Autorità nazionale palestinese (Anp) che ha definito "storica" la decisione. L'uscita dall'Unesco, confidano ad HP fonti di Gerusalemme, , è anche un messaggio indirizzato ad altre istituzioni sovranazionali considerate dall'attuale leadership israeliana come sbracate su una linea filopalestinese: in primis l'Unione Europea. In totale sintonia con l'assunto che la miglior difesa è l'attacco, Netanyahu ha deciso di non assistere passivamente all'"intifada diplomatica" portata avanti negli ultimi tempi dalla dirigenza palestinese, al centro della quale vi sono due punti-chiave: neutralizzare la "penetrazione" palestinese in organismi che Israele ritiene particolarmente "sensibili", e agire sulle cancellerie europee che contano, oltre che su Bruxelles, perché non riconoscano unilateralmente lo Stato palestinese e, soprattutto, sostengano, come atto riequilibratore, la candidatura d'Israele per un seggio di membro non permanente al Consiglio di Sicurezza. Nel frattempo, nel mirino diplomatico di Gerusalemme vi sono il Consiglio per i diritti umani dell'Onu e la Corte penale internazionale de l'Aja. Più volte in passato, Israele ha aspramente criticato risoluzioni del Consiglio per i diritti umani che mettevano sotto accusa il comportamento delle Idf, le Forze armate israeliane, per operazioni condotte nei Territori occupati palestinesi, e in particolare della Striscia di Gaza, che avevano causato vittime civili.


Dopo l'Unesco, è su Ginevra che si indirizza l'offensiva israelo-statunitense. Nel suo primo discorso (7 giugno 2017) al Consiglio Onu per i diritti umani (UNHRC), l'ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha affermato che è "difficile accettare" che il Consiglio per i diritti umani abbia approvato delle risoluzioni contro Israele, un alleato di Washington, ma che non le abbia mai prese in considerazione per il Venezuela o l'Iran; per questo "gli Stati Uniti stanno guardando con attenzione a questo Consiglio e alla nostra partecipazione. C'è spazio per un significativo rafforzamento". Haley ha rimarcato che non è stato fatto abbastanza per criticare l'Iran, "un Paese con una storia orrenda sui diritti umani". "Essere un membro di questo Consiglio è un privilegio e a nessun Paese che viola i diritti umani dovrebbe essere consentito di avere un posto a questo tavolo". "È difficile accettare che questo Consiglio non abbia mai considerato una risoluzione sul Venezuela, adottando invece cinque risoluzioni faziose, a marzo, contro un singolo Paese, Israele. È essenziale che questo Consiglio (composto da 47 membri eletti per un mandato triennale, ndr) affronti il suo cronico pregiudizio contro Israele per avere credibilità". Lo scorso settembre, l'UNHRC ha inserito Israele nella lista degli Stati che commettono abusi contro attivisti. La black-list comprende 29 Stati che l'UNHRC definisce tra quelli che maggiormente violano i diritti umani. Una scelta che ha incontrato il favore di Hamas, il cui, Fawzi Barhoum, ha sostenuto che si trattava di un passo importante per mostrare la verità dell'occupazione israeliana e l'oppressione del popolo palestinese. Barhoum ha aggiunto che la comunità e le organizzazioni internazionali devono punire le violazioni di Israele e sostenere il diritto del popolo palestinese a riavere la sua libertà e i diritti che gli sono stati sottratti. Agli occhi degli israeliani il Consiglio è destituito di attendibilità da quando, nel 2009, chiese al giudice Richard Goldstone di scrivere un rapporto sulla operazione 'Piombo fuso" condotta da Israele a Gaza contro Hamas. Un rapporto che Israele ha trovato parziale e diffamatorioAltra data cerchiata in rosso, altro luogo e istituzione: 1 aprile 2015. E' il giorno in cui la Palestina entra ufficialmente a far parte dei 123 Paesi che aderiscono alla Corte penale internazionale, il tribunale per i crimini internazionali che ha sede all'Aja, in Olanda. L'ingresso della Palestina tra gli Stati membri del Cpi, offre i la possibilità di aprire un fascicolo contro i leader israeliani per crimini di guerra e crimini legati all'occupazione. In particolare si fa riferimento a quegli atti commessi dopo il 13 giugno 2014, data di inizio "dell'escalation militare israeliana" seguita al rapimento e poi all'uccisione di tre giovani ebrei in Cisgiordania. "E'una giornata storica – aveva commentato il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat – servirà come sollecito alla comunità internazionale ad assumersi le proprie responsabilità al fine di raggiungere una pace duratura e mettere fine all'occupazione". Unesco e non solo, dunque. La guerra diplomatica di "Bibi" è appena agli inizi.


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