Eshkol Nevo :«Gerusalemme non è solo mia»

 
 
 
 
di Eshkol Nevo
corriere.it
 
 
M i hanno chiesto di scrivere della «mia» Gerusalemme. Il fatto è, ho pensato, che non è mai stata solo mia. L’ho capito dal primo momento, che non era solo mia.
N el quartiere di Gerusalemme in cui sono nato, vivevano anche molti ultraortodossi. Fin da piccolissimo, ho avuto ben chiaro che nella «mia» città vivevano persone assai diverse da me. Nel vestire. Nello stile di vita. La memoria è sempre selettiva, ma di quei tempi non ricordo sommosse. O conflitti. Vivevamo fianco a fianco. Giocavamo, bambini con i cernecchi e bambini senza cernecchi, tutti insieme.
Dall’altra parte della strada si levavano le mura della Città Vecchia. Ancora oltre, Gerusalemme Est. Era prima dell’Intifada, e la Città Vecchia era ancora il luogo dove passeggiavo con i miei genitori. Senza timori. Anche lì vedevo persone che vivevano, si vestivano, parlavano, in modo diverso. Non ricordo che allora l’arabo fosse una lingua minacciosa. Tutt’al più incuriosiva. I miei genitori mi portarono al Kotel, il Muro del Pianto, a infilare un foglietto in una fessura fra le pietre, e poi mi mostrarono la Cupola d’Oro spiegando che Gerusalemme, come era sacra per gli ebrei, era sacra per i musulmani. Non ricordo di averci trovato una contraddizione, da bambino. Poi lasciammo Gerusalemme per trasferirci a Haifa, e ci tornammo quando avevo dodici anni.
Gerusalemme è montuosa, non ci sono molti posti dove andare in bicicletta, ma nel quartiere dove abitavamo noi, si poteva. Di Shabbat uscivo in bici e gironzolavo per i sentierini del parco pubblico, Gan Saker. Nei grandi prati, facevano pic-nic e giocavano a calcio poveri e ricchi, religiosi e laici, arabi ed ebrei. Tornando da Gan Saker, mi fermavo nel centro della Valle della Croce, nel luogo in cui, secondo la tradizione, crebbe l’albero con cui i romani fabbricarono la croce di Gesù. Mi capitava di passare in mezzo a gruppi di pellegrini che si recavano a visitare il monastero. A volte, nelle arroventate giornate estive, anch’io entravo nel monastero, per godermi l’aria sempre fresca del chiostro. A quel punto sapevo e avevo studiato già abbastanza da sapere che Gerusalemme non appartiene solo agli ebrei e ai musulmani, bensì anche ai cristiani.
Il venerdì andavo con mio papà al mercato Machane Yehuda. A fare la spesa per Shabbat. Da tutte le macchine ferme nell’immancabile ingorgo di via Agrippas, arrivava la canzone in testa alla hit parade dell’epoca, Linda, Linda . Il cantante si chiamava Haim Moshe. Le parole erano tutte in arabo.
Alle 17 un uomo passava per il mercato suonando lo shofar per segnalare ai venditori e agli acquirenti l’approssimarsi dell’entrata dello Shabbat: era il momento di chiudere gli affari e tornarsene a casa. Anche noi obbedivamo, trascinavamo i sacchetti di frutta e verdura alla macchina e prendevamo la strada di casa. Anche se non abbiamo mai osservato lo Shabbat. Non mi sembrava strano. Faceva parte del fatto di vivere a Gerusalemme.
Lasciammo Gerusalemme nel 1985. Nel 1987 scoppiò l’Intifada e i rapporti fra arabi ed ebrei si caricarono di una profonda tensione. Di violenza trattenuta, e non trattenuta.
Tornai comunque a Gerusalemme nel 1993 per incontrare l’amore della mia vita. Lei studiava all’Università Ebraica. Io mi ero appena congedato. Degli amici in comune ci fecero conoscere. Passai a prenderla nel suo appartamento in via Moshe Hagiz, in un quartiere abitato prevalentemente da ultraortodossi. Il primo bacio ce lo scambiammo in via Hatibonim, nel quartiere di Rehavia, non lontano dal Monastero della Valle della Croce. In men che non si dica Gerusalemme si riempì di pietre miliari, posti romantici, che diventavano «nostri» senza che nessuno fosse davvero solamente «nostro». Non il bellissimo quartiere diviso di Abu Tor. Non la passeggiata vicino al Palazzo del Governo mandatario, Armon Hanetziv. Non Talitha Kumi, nello spiazzo del vecchio Mashbir. Persino il primo appartamento in cui andammo a convivere, a Maoz Zion, sulla strada per Gerusalemme, era stato costruito sulle rovine di una casa araba, nel villaggio Castel, i cui abitanti erano fuggiti durante quella che noi chiamiamo Guerra d’Indipendenza, e i palestinesi chiamano Nakba.
Amo Gerusalemme di tutto cuore. Di tanto in tanto ci torno, e mentre salgo per la strada tortuosa fino all’ingresso della città, il cuore mi batte di nostalgia. Anche dopo aver visitato tante celebri città in tutto il mondo, continuo a trovare Gerusalemme la più bella di tutte.
Ma non l’ho mai considerata solo «mia». O solo «nostra». Chi ama Gerusalemme davvero, e non solo come slogan politico, non ha bisogno che il presidente degli Stati Uniti gli dica che è la capitale di Israele. È ovvio, che sia la capitale d’Israele. Gli ebrei hanno pregato in direzione di Gerusalemme per i duemila anni di diaspora. Aggiungendo «L’anno prossimo nella Gerusalemme ricostruita». Senza Gerusalemme, con il profondo anelito che rappresenta, non sarebbe esistita l’immigrazione sionista in Terra d’Israele, non sarebbe esistito uno Stato per gli ebrei. Senza Gerusalemme non esisterebbe Tel Aviv.
Ma chi ama davvero Gerusalemme sa anche che la sua esistenza si fonda su un delicatissimo sistema di equilibri e compromessi.
Non sono sicuro che Donald Trump se ne renda conto. Non sono sicuro che sappia di cosa parla, quando parla di Gerusalemme.
Gerusalemme può rappresentare l’inizio della risoluzione del conflitto, se ricorderemo che non è solo nostra. E rispetteremo il rapporto intenso e profondo che i credenti delle altre religioni hanno con lei.
Gerusalemme potrebbe anche diventare il fiammifero che innesca l’ordigno esplosivo, se ci crogioleremo nelle dichiarazioni di un presidente americano non particolarmente saggio e dimenticheremo che non lui, ma noi e i nostri figli, dobbiamo vivere da queste parti. E che da queste parti non c’è futuro senza compromessi e senza vedere l’altro. Anche a Gerusalemme.
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