Richard Falk :Riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele
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- Sabotaggio di Trump della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sugli insediamenti israeliani
- Riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele
- Non più una forza sul palcoscenico mondiale
6 dicembre 2017
[Nota introduttiva: il seguente post è una versione modificata di un
articolo pubblicato l’8 dicembre sul portale Middle East Eye che valuta
gli aspetti geopolitici dell’unilateralismo di Trump. I suoi difensori
sostengono che Trump ha finalmente riconosciuto la realtà operativa che
Gerusalemme è stata la capitale di Israele negli scorsi 50 anni e che
si è esagerato circa gli effetti di disturbo, dato che l’Arabia Saudita
non ha reagito in maniera fortemente negativa. I critici, compreso me,
considerano l’iniziativa come uno schiaffo ingiustificato ai Palestinesi
e come un’ulteriore conferma del disprezzo di Trump verso la legge
internazionale, la moralità internazionale e l’autorità degli Stati
Uniti. Lo status di Gerusalemme serve come punto focale per la tensione
tra la vecchia geopolitica del realismo dell’hard power *e la
geopolitica normativa del nuovo realismo del soft power che sta lottando
attraverso un processo di nascita in molti contesti. Secondo me la
risoluzione di questa tensione modellerà la traiettoria dell’umanità del
21° secolo. In altre parole, i rischi sono alti.]
Riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele
Con l’agilità di un elefante in un negozio di porcellana, Trump ha
ignorato i consigli di vari stretti consiglieri, ha trascurato le
ferventi suppliche di alcuni dei più stretti vicini arabi di Israele, ha
ignorato gli avvertimenti degli alleati tradizionali dell’America in
Medio Oriente e in Europa e ha infranto un elemento chiave di un
consenso internazionale che da lungo tempo ha prevalso all’ONU,
procedendo a proclamare formalmente il punto di vista di Washington che
Gerusalemme è e sarà la capitale di Israele. Tale dichiarazione serve
anche a razionalizzare la precedente promessa di spostare l’ambasciata
americana da Tel Aviv, la città dove ogni altro paese del mondo insiste a
mantenere il suo rapporto da governo a governo con Israele, a
Gerusalemme, città sacra per tutte e tre le religioni monoteiste.
La domanda più ovvia da porre riguarda le motivazioni: perché? Per
quanto possa sembrare strano a coloro che vivono in Medio Oriente, la
spiegazione più persuasiva è che Trump ha considerato questo atto di
riconoscimento come un’occasione di mostrare ai suoi più appassionati
sostenitori in patria, che manteneva le sue promesse fatte durante la
campagna elettorale. Trump è stato frustrato nel primo anno della sua
presidenza a causa della sua imbarazzante incapacità di portare a
termine il programma che lo aveva aiutato ad essere eletto nel 2016. E’
vero che facendo questo ulteriore passo verso il trasferimento
dell’ambasciata americana, la popolarità di Trump a Israele ha avuto
un’impennata, e che, come ha fatto notare, sta facendo realmente
facendo quello che i suoi predecessori il Congresso hanno proposto da
lungo tempo.
In sostanza, Trump sembra avere fatto questo passo controverso a livello internazionale,
perché si preoccupa di compiacere i Sionisti cristiani e la lobby
israeliana in America più di quanto gli importi di causare offese ai
diplomatici dell’ONU, forse infiammando le masse arabe, allontanando
l’ultimo brandello di dubbio tra i Palestinesi che agli Stati Uniti si
potrebbe mai dare la fiducia di assumere il ruolo di ‘onesto mediatore’ o
perfino di intermediario di parte, alla ricerca della soluzione di due
stati, e, forse più di tutto, collegando la politica estera americana
nel turbolento Medio Oriente in modo durevole e coerente con interessi
nazionali strategici per la stabilità regionale.
Da questa punto di vista, Trump ha dimostrato ancora una volta il suo
straordinario talento di scegliere la peggior alternativa possibile in
delicate situazioni internazionali dove potrebbero seguire terribili
conseguenze da una svolta politica sbagliata, e le ricompense di agire
da solo sembrano minime e transitorie, nel migliore dei casi.
Questo chiaro esempio di unilateralismo di Gerusalemme è parallelo
alla stupidità geopolitica di esseri ritirati, pochi mesi fa, dagli
Accordi di Parigi sul clima del 2015. In quel caso anche l’approccio di
Trump alla politica estera, sembrava perversamente designato a lucidare
la sua già certa reputazione di prima superpotenza canaglia dell’era
nucleare. Questo ruolo di disturbo globale è anche pericolosamente
evidente
nella diplomazia che usa minacce apocalittiche adottata da Trump
nella Penisola coreana come reazione al programma di armi nucleari di
Kim Jong-un, che comprendeva spacconate provocatorie, sviluppo di armi, e
seri rischi di reciproci errori di valutazione.
L’opinione liberale negli Stati Uniti e all’estero si è dispiaciuta
per l’iniziativa di Trump riguardo a Gerusalemme, per motivi sbagliati.
E’ stata particolarmente notevole l’affermazione in varie forme, che
Trump aveva danneggiato, se non distrutto, il ‘processo di pace’ il suo
specifico ruolo come parte convocante. Questa preoccupazione
presupponeva che esistesse un processo di pace sufficiente a essere
suscettibile di distruzione. Mentre prometteva ‘l’accodo del secolo,’
Trump ha consegnato la sua ipotetica offensiva di pace agli estremisti
favorevoli ai Sionisti e ai fondamentalisti degli insediamenti (David M.
Friedman, Jared Kushner e Jason Greenblatt) il cui ovvio scopo non era
la pace ma dare gli ultimi ritocchi a quella che consideravano una
vittoria israeliana che aveva bisogno soltanto una disposizione finale
che salvava la faccia perché la Autorità Palestinese completasse
l’opera. Lavorando in coppia con la guida di Netanyahu, lo sforzo di
Trump finor si è incentrato sull’uccidere ‘la soluzione dei due stati,’
almeno nella sua rivendicazione di soddisfare le ragionevoli aspettative
palestinesi di autodeterminazione, sotto forma di un stato sovrano
fattibile e realmente indipendente, con la sua capitale a Gerusalemme
Est. Al suo posto, si suppone che la ‘squadra perfetta’ di Trump si
inventerà un sistema di governo non fattibile in quello che rimane sotto
controllo palestinese in Cisgiordania, sia legato a Gaza o separato in
modo duraturo, affrontando la realtà definendo il piano come la
realizzazione delle aspettative per i due-stati, e liquidando le
obiezioni palestinesi come ‘rifiuto’, l’insistenza ostinata di avere
tutto e, alla fine, una versione ‘prendere o lasciare’ della Scelta di
Hobson.**
Dato che ora le cose stanno così, anche lo status quo è molto
sfavorevole dal punto di vista della lotta nazionale palestinese e
dell’attuazione della versione della comunità internazionale di un
ragionevole compromesso. L’attuale stato di occupazione e di espulsione
facilita la continua conversione della ‘occupazione del 1967’ del
territorio palestinese in una realtà permanente che mischia illegalmente
l’annessione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est con il
mantenimento del controllo sul popolo palestinese attuato per mezzo di
strutture di apartheid di assoggettamento. Se questa valutazione è
corretta, allora lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme
può essere vista come in supporto all’evidente concezione di Netanyahu
del gioco finale di questa lotta centenaria tra le aspirazioni nazionali
di questi due popoli sotto attacco. Al riguardo, la schiettezza
dell’approccio di Trump rivela al mondo una brutta realtà che dovrebbe
essere stata ovvia a chiunque guardi il potere di Israele con occhio
critico o che comprenda le conseguenze negative del mantra ‘L’America
prima di tutto’.
Quello che dà a questa svolta regressiva la sua plausibilità, ponendo
ancora un’altra sfida al movimento palestinese, è il fatto che nella
nuova situazione Riyadh ha chiuso un occhio anche verso la
giudaizzazione d Gerusalemme, il che sembrerebbe confermare la priorità
saudita della collaborazione con gli Stati Uniti e Israele, anche a
spese dei fondamentali interessi islamici e del mantenimento della
solidarietà nel mondo musulmano. In questo senso, è bene prendere nota
della dichiarazione dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica
(OIC), approvata da tutti i 57 statti membri (compresa l’Arabia
Saudita), che Gerusalemme è la capitale della Palestina, negando a
Israele qualsiasi diritto a un formale processo di governo nella città.
Mentre l’analisi sostanziale ci aiuta a comprendere il contesto
geopolitico che rende il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di
Israele, un calcio all’inguine delle illusioni palestinesi circa la
diplomazia per una pace fattibile ma che allo stesso tempo porta la
maggior parte degli Israeliani a ballare nelle strade. Sottolinea anche
l’ipocrisia dell’appello della comunità internazionale per resuscitare
il processo di pace quando avrebbe dovuto essere evidente da molto tempo
che l’espansione israeliana dei territori come anche l’approccio di Tel
Aviv a Gerusalemme aveva superato il punto di non ritorno e quindi
l’occasione per abbandonare una diplomazia irrealizzabile e affrontando
con onestà la domanda che cosa verrà poi? Il recente comportamento di
Israele chiarisce che per tutti tranne i propagandisti sionisti che il
governo israeliano attualmente non ha alcuna voglia di mettere fine al
conflitto se questo significa creare uno stato palestinese indipendente
delimitato dai confini del 1967,comprendendo in tal modo la
Cisgiordania, Gaza, e Gerusalemme est. Per Israele le alternative sono
perpetuare lo status quo di apartheid e tenere conto della comparsa di
‘bantustan palestinese’ come prezzo diplomatico che la leadership di
Netanyahu è disposta a pagare per una garanzia di ‘soluzione pacifica’.
Dall’emissione della Dichiarazione Balfour nel 1917 *** fino a questo
momento storico che riconosce le rivendicazioni di Israele per
Gerusalemme, il Sionismo, e dal 1948, lo Stato di Israele, hanno diffuso
al mondo un messaggio con due codici. Nelle sue affermazioni pubbliche,
l’atteggiamento pubblico di Israele è di prontezza per il compromesso e
di coesistenza pacifica con i Palestinesi, mentre le sue prassi e
obiettivi reali possono essere intesi come la coerente ricerca graduale
dell’ideale visionario del Grande Israele o Nostra Terra Promessa.
L’attuale ambasciatore di Israele negli Stati Uniti, Ron Dermer, mentre
ringraziava Trump per stare così decisamente dalla parte di Israele, ha
detto agli spettatori di una TV americana, che Gerusalemme è stata
davvero la capitale del popolo israeliano da 3000 anni. Da nessun parte
il doppio codice di Israele è stato più evidente che in relazione a
Gerusalemme. Usa le grandiose rivendicazioni della tradizione della
religione ebraica, quando può, e la diplomazia in qualche modo più
restrittiva della politica quando questa offre delle occasioni, e fa del
suo meglio per evitare del tutto i precetti della legge umanitaria o
del consenso degli Stati Uniti.
Dalla parte del discorso pubblico c’è la pubblica accettazione delle
disposizioni per la spartizione espressi nella Risoluzione 181
dell’Assemblea Generale che comprendeva la internazionalizzazione di
Gerusalemme con un’amministrazione dell’ONU. Considerata in maniera più
critica dalla prospettiva di un discorso comportamentale, la reale
condotta di Israele ha sfidato in modo flagrante e coerente, la legge
internazionale, ampliando e annettendo Gerusalemme come ‘l’eterna
capitale’ del popolo ebreo e manipolando la demografia e l’eredità
culturale della città in modi che hanno fatto sembrare più credibile
considerare tutta Gerusalemme come città ebrea.
E’ difficile anche per apologeti israeliani notori, come Elliot
Abrams o per gli ex ambasciatori americani a Israele, difendere la reale
decisione di Trump. Questi apologeti preferiscono adottare una
posizione predefinita. Sì, la tempistica dell’iniziativa della Casa
Bianca è stata tatticamente discutibile, ma la condanna internazionale
che ha avuto ne esagera molto l’importanza e l’inopportunità. Gli
apologeti considerano le critiche e le preoccupazioni come esagerate ed
equivalenti a un’ostentazione di ‘respiro affannoso’. In effetti questi
apologeti sono d’accordo con l’affermazione principale di Trump che
accettare la rivendicazione di Israele di avere la sua capitale a
Gerusalemme, è un tardivo riconoscimento della realtà; nulla di più,
nulla di meno, e che il resto del mondo dovrà imparare a vivere con
questa identificazione. Il tempo ci dirà se questo sdrammatizzare le
paure di rinnovata violenza della resistenza e di anti-americanismo sono
qualcosa di diverso che un debole tentativo da parte degli apologeti di
riaffermare la legittimità di Israele di fronte a quello che dovrebbe
risultare come un fiasco geopolitico.
Ciò che dovrebbe sgomentare di più la regione e il mondo circa la
politica di Trump riguardo a Gerusalemme, è la sua singolare miscela di
ignorare la legge, la moralità e il consenso internazionale e
contemporaneamente di danneggiare così palesemente gli interessi
nazionali dell’America concepiti in modo più costruttivo e la tradizione
della leadership globale. Questa mistura diventa tossica rispetto a
Gerusalemme, perché, umiliando il movimento nazionale palestinese e
ignorando lo status simbolico di Gerusalemme per i Musulmani e per i
popoli arabi, rende più probabile l’estremismo violento e allo stesso
tempo presta appoggio a posizioni già esistenti di anti-americanismo.
Come è incoerente e controproducente il fatto di proclamare la sconfitta
dell’ISIS e dell’estremismo politico come massima priorità americana e
poi fare questa mossa per Gerusalemme che praticamente di sicuro causerà
rabbia populista e un contraccolpo estremista. Nessun reclutatore
dell’ISIS avrebbe potuto sperare di più!
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace
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