Alberto Negri : articoli sulle manifestazioni di protesta in Iran
L’inizio della rivolta è stata nella provincia di Mashad, città cardine del rivale di Rohani
notizie.tiscali.it
La chiamano già la
rivolta dei mostazafin, letteralmente di quelli dei senza scarpe, i
diseredati. Quando non si sa come inquadrare un fenomeno si cerca
un’etichetta anche pescando nel passato, quando i mostazafin, gli
oppressi, erano gli eroi in nome dei quali era stata fatta la
rivoluzione del 1979 contro lo Shah Palevhi. Certo i giovani scesi i
piazza sembrano avere poco a che fare con i loro coetanei borghesi della
Teheran Nord, del fronte riformista, della protesta animata comunque da
un’ideologia che aveva i suoi riferimenti nella rivoluzione ma anche
negli ideali libertari occidentali.
Una rivolta difficile da interpretare
per gli analisti del mondo iraniano e senza punti di riferimento. Una
ribellione dove, per ora, è la periferia a prevalere sul centro: i
giovani iraniani sono scesi in piazza in città lontane dall’usuale
palcoscenico della politica, anche per questo le notizie arrivano con
difficoltà e le forze di sicurezza, presenti in maniera capillare nelle
grandi metropoli, hanno problemi a mantenere il controllo della
situazione. Si tratta di una rivolta che ha caratteristiche sociali
sfuggenti. Finora le grandi proteste in Iran si erano svolte a Teheran e
nella grandi città dove è più facile individuare cosa le muove e chi le
agita.
Gli stessi riformisti sono rimasti spiazzati. Nel 2009 si era mossa una protesta, quella dell’Onda Verde, dove c’erano dei leader politici ben precisi, Mir Hussein Mousavi e Mehdi Karrubi, che facevano
riferimento ai riformisti appoggiati allora da Hashemi Rafsanjani, uno
dei grandi padrini della repubblica islamica. Anche il bersaglio era
evidente: la rielezione del presidente ultraconservatore Mahamoud
Ahmanidnejad, avvenuta in un clima pesantemente avvelenato dai brogli,
sostenuto allora dalla Guida Suprema Alì Khamenei che successivamente lo
ha abbandonato ala suo destino.
Le strade nel 2009 si erano riempite
non soltanto del popolo ma anche della borghesia della capitale, la
classe media iraniana che ha i suoi referenti a Teheran Nord, la parte
generalmente più agiata della società. Questa volta a bruciare le auto e
incendiare i posti di polizia sono i giovani più poveri della
periferia, non della capitale ma del Paese. Mentre i giovani studenti
della borghesia hanno quasi sempre sostenuto i candidati riformisti
o moderati alla presidenza, come Mohammed Khatami nel ‘97 e poi Hassan
Rohani, per contrastare l’ala dura del potere del clero e dei Pasdaran,
questa ondata di protesta non sembra esprimere simpatia per i riformisti
e gli “illuminati”.
Ecco perché anche le Guardie della Rivoluzione
e i gruppi para militari come i Basiji hanno problemi a contenere la
protesta. Nei casi precedenti le forze di sicurezza avevano un’idea
piuttosto precisa dei ribelli: giovani studenti che volevano se non
abbattere il sistema almeno riformarlo. Oggi è assai più complicato
tracciare un profilo dei ribelli che sono pure dispersi in un vasto
territorio. Inoltre sono comparse nelle piazze della provincia minoranze
come i curdi e gli arabi, negli anni precedenti piuttosto ai margini
nelle manifestazioni di dissenso nelle grandi città.
E’ interessante notare che mezzi come Telegram
hanno un andamento sussultorio: ogni tanto vengono chiusi dalle
autorità e poi improvvisamente riaperti. Questo significa non soltanto
un’incertezza un pò sospetta nella gestione della rivolta ma si tratta
probabilmente di una mossa necessaria per capire come e da chi vengono mobilitate le proteste.
Chi manovra i ribelli?
L’inizio della rivolta è stata nella provincia di Mashad, città cardine
del rivale di Rohani, Ebrahim Raisi, capo della ricca e potente
Fondazione Al Qods, battuto alle elezioni presidenziali del maggio
scorso. Questo ha fatto pensare che gli ultraconservatori potessero in
qualche modo volere mettere in crisi il governo dell’attuale presidente.
Un’interpretazione avvalorata dalle dichiarazioni di un fedelissimo di
Rohani, il vicepresidente Eashaq Jahangiri, il qualche nei giorni scorsi
aveva accusato gli ultrà del regime di manipolare le
manifestazioni, un’interpretazione degli eventi appoggiata dallo stesso
fronte riformista.
La chiave di lettura interna
appare più concreta di quella dei manovratori esterni evocati dallo
stessa Guida Suprema Alì Khamenei, che si è espresso per una linea ben
più dura rispetto a quella di Rohani. L’esito, nel caso repressione
delle manifestazioni, è intuibile: si rafforzerà l’ala dura del regime
che prima o poi presenterà il conto al moderato Hassan Rohani.
Alberto Negri - L'“ayatollah economy” causa de mali dell’Iran
Perché la rivolta in
Iran di questi giorni, infiammata da ragioni economiche e sociali, si è
trasformata anche in una ribellione al sistema?
In Iran quando si paga il conto di
un grande albergo, di un ristorante o soltanto un Zam Zam, la versione
locale della Coca Cola, ci sono buone probabilità che i vostri soldi
stiano finendo nelle casse delle Fondazioni, le Bonyad, le istituzioni
che dopo il ’79 incamerarono i beni dello Shah e quelli delle grandi
famiglie.
Un
viaggio nella galassia delle Bonyad spiega più delle statistiche, non
sempre affidabili, perché le riforme in Iran non sono mai decollate e il
sistema di potere resiste a ogni tentativo reale di cambiamento. I
libri contabili veri delle Fondazioni non li vede neppure il presidente
della Banca centrale
Fare profitti e non pagare tasse: è
il sogno coltivato per due decenni dai bazarì iraniani che finanziarono
generosamente la rivoluzione islamica dell’Imam Khomeini. Dopo la caduta
dello Shah nel’79 si è in parte avverato con le Bonyad, le Fondazioni
esentasse che hanno assorbito non soltanto le proprietà immense della
corona imperiale ma anche la maggior parte dei conglomerati e delle
attività economiche che facevano capo alle famose 100 famiglie
introdotte alla corte dei Palhevi. Le nazionalizzazioni non avevano
nulla a che vedere con il socialismo o il marxismo, che pure facevano
parte insieme all’Islam sciita delle correnti ideologiche della
rivoluzione: una nuova classe dominante rovesciava quella vecchia.
Era così che con l’alone dell’utopia
rivoluzionaria il turbante dei mullah si sostituiva alla corona
imperiale. Tutto questo _ così almeno avrebbe voluto l’Imam _ doveva
andare a beneficio dei mostazafin, letteralmente i senza scarpe, i
diseredati e gli oppressi in nome dei quali era stata fatta la
rivoluzione. In realtà religiosi, ex rivoluzionari, pasdaran e uomini
d’affari, si sono impadroniti del business di un Paese con enormi
riserve di gas e petrolio.
L’”ayatollah economy” delle
Fondazioni è la spina dorsale del potere, una rete clientelare e di
welfare state che si ramifica nella società e si prolunga oltre i
confini della repubblica islamica. Le Bonyad _ un centinaio, di cui una
dozzina quelle che contano davvero_ hanno fini istituzionali
caritatevoli e di assistenza ma non rinunciano ai profitti e coinvolgono
più o meno direttamente cinque milioni di iraniani: sono quindi
essenziali nella fabbrica del consenso del regime.
La Barakat Foundation, impero del
valore di 95 miliardi di dollari che fa capo alla Guida Suprema,
l’ayatollah Ali Khamenei. Un labirinto di società, alcune entrate nel
mirino delle sanzioni americane, protagoniste dell’economia: a questa
Bonyad fa capo il consorzio che ha concluso per 8 miliardi di dollari
l’acquisto delle quote della rete telefonica e Internet della
Telecommunication Company, la maggiore operazione di Borsa nella storia
del Paese.
Questa fondazione è parte della più
vasta conglomerata controllata dalla Guida Suprema e conosciuta come
“Setad Ejraiye Farmane Hazrate Emam”, ovvero “Sede per l’esecuzione
degli ordini dell’Imam“: costituita con un’ordinanza firmata nel 1989
dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, la società aveva il compito di gestire
le proprietà abbandonate negli anni caotici post rivoluzionari per
poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro
l’Iraq (un milione tra morti e invalidi).
La società doveva rimanere in vita
solo un paio d’anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un
colosso immobiliare _ 52 miliardi di asset_ che ha acquistato
partecipazioni in decine di aziende pubbliche e private in quasi tutti i
settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di
pillole anticoncezionali all’allevamento degli struzzi. Tra portafoglio
immobiliare (53 miliardi di dollari) e quote societarie, 43 miliardi, la
Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere
iraniane dello scorso anno, circa 68 miliardi di dollari.
Tempo fa un’inchiesta della Reuters
ha fatto infuriare Teheran perché si afferma che la fondazione avrebbe
accumulato il suo patrimonio immobiliare sostenendo nei tribunali, con
documenti contraffatti, che le proprietà erano state abbandonate. La
Setad avrebbe quindi rivenduto gli immobili all’asta oppure chiesto
ingenti somme per il riscatto dei beni ai legittimi proprietari. Il
capo delle pubbliche relazioni della Setad ha liquidato le rivelazioni
come “lontane dalla realtà e scorrette”, sottolineando che in cinque
anni attraverso la fondazione ha investito 1,6 miliardi di dollari in
scuole e progetti di sviluppo.
Ma non c’è dubbio che le Bonyad
siano il cuore di questa economia: detengono almeno il 30-40% del Pil e
hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro,
quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre
a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche.
La domanda di fondo è questa: è possibile riformare un’economia rivoluzionaria, per di più islamica?
L’impresa è ardua. In Iran ci sono
circa 80mila tra moschee, templi e istituzioni religiose che
amministrano terre e imprese come facevano i monasteri nel Medioevo
europeo, quando la Chiesa faceva concorrenza in tutti i campi al potere
temporale.
A Mashad la Fondazione Reza, sorta
intorno al famoso santuario dell’Ottavo Imam, fattura il 7% del Pil
iraniano e tiene in pugno l’economia del Khorassan: il suo custode è
Ebrahim Raisi, ayatollah-manager, rivale del presidente Hassan Rohani
alle elezioni del maggio scorso. La Bonyad degli Oppressi ha un volume
d’affari stimato oltre 12 miliardi di dollari l’anno e alla Borsa di
Teheran il 60% della capitalizzazione è costituito da società che
ruotano intorno all'ayatollah economy. Correggere il sistema, che ha
larghe sacche di inefficienza, era la vera sfida per il governo di
Hassan Rohani che aveva basato il suo successo elettorale sulla promessa
di far uscire l’Iran dall’isolamento e riformare l’economia. Ma
cambiare il sistema dall’interno è assai più complicato: in fondo anche
lui è un mullah e, come dicono a Teheran, dovrebbe tagliare il ramo
dell’albero dove è seduto.
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