Fulvio Scaglione: articoli sulla rivolta iraniana

’Iran brucia, ma il velo non c’entra nulla (e nemmeno l'Occidente)


Rieccoci. Scoppiano i disordini in Iran e le nostre reazioni sono tipiche. Da un lato il complotto: le proteste come opera del nemico, in questo caso Usa e Israele (e perché non anche Arabia Saudita?), pronti a fomentare e provocare. Dall’altro la soddisfazione, come se i giovani iraniani scendessero in piazza per fare un piacere a noi, per avere più McDonald’s o votare Donald Trump. O come se il problema fosse il velo delle donne, altra fissazione di una società occidentale infatti pronta a idolatrare Macron e signora e convinta che permettere a chiunque di sposare chiunque sia più importante che trovare un lavoro ai giovani.
L’una e l’altra reazione sono solo proiezioni dei nostri desideri. Una triangolazione maliziosa tra Washington, Riad e Gerusalemme, con relative tresche, non è da escludere: i recenti successi politico-militari dell’Iran, Siria in testa, danno molto fastidio e si è visto con quale intensità Trump, Mohammad bin Salman e Netanyahu cerchino di saldare i loro rapporti. Ma gli iraniani, anche quelli che ora scendono in piazza, hanno un forte spirito di patria, come si è visto quando lo sviluppo del nucleare (civile e forse anche militare) gli attirava sul capo le sanzioni del mondo e nessuno protestava o criticava il Governo per quella scelta e quelle difficoltà. Qualche provocatore ci sarà, ma pensare che tanti altri vadano a farsi ammazzare (siamo già a 12 morti in tre giorni) perché glielo dice qualcuno da fuori è ingenuità pura.Peggio ancora è credere che i cittadini di uno dei pochissimi Stati-nazione del Medio Oriente, insieme solo con Turchia ed Egitto, erede di una storia millenaria, siano pronti a buttare tutto per la smania di fare come noi, di essere noi. Al contrario: gli iraniani protestano perché hanno problemi che sono loro, particolari, ma nello stesso tempo rimandano alle linee di faglia che scuotono l’intera regione. Non è certo un caso se furono proprio gli iraniani, nel 2009, protestando in un Paese non arabo contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, a innescare quel terremoto che nel 2011 avrebbe scosso il mondo arabo con il nome di Primavera.



L’Iran è prima di tutto un Paese di giovani, proprio come il Medio Oriente è una regione di giovani. In Iran (82 milioni di abitanti) l’età media è di 30 anni e il 40% della popolazione ha meno di 25 anni. In Medio Oriente oltre il 30% dei circa 430 milioni di abitanti ha meno di 30 anni. Nell’uno come nell’altro caso si tratta di giovani educati e preparati. Il tasso di iscrizione all’Università, in Iran, nel 2015 è arrivato al 70% (solo nel 1999 era al 20%), più che in Italia, Giappone e Regno Unito e pari a due volte la media mondiale. Velo o non velo, quasi il 70% degli studenti universitari sono ragazze. Uno squilibrio che il presidente Ahmadinejad provò a correggere riducendo il numero dei corsi accessibili alle ragazze, con un provvedimento discriminatorio che il suo successore, Hassan Rohani, ha infatti pian piano smantellato nelle 60 Università pubbliche (nel 1977 erano 16). Moltissimi di questi studenti, inoltre, integrano o completano gli studi con corsi all’estero. Nell’anno accademico 2015-2016, per fare un esempio, l’Iran è stato l’11° Paese al mondo per numero di studenti mandati negli Usa: 12.269, affiancati da 1.891 visiting professor e ricercatori.È questa la ragione per cui i giovani iraniani sono stati e sono i pesci pilota delle crisi dell’intera regione. Proprio come i loro coetanei in Tunisia, Egitto, Siria eccetera, questi ragazzi escono dall’Università per infilarsi in un collo di bottiglia che si chiama caccia al posto. La disoccupazione giovanile, in Iran, è doppia rispetto a quella generale (26 e 13%). Una frustrazione bruciante, cui si aggiungono altre frizioni. In Iran non c’è una democrazia di stile britannico ma il dibattito politico è vivace, a tratti anche aspro. Questi ragazzi, oltre a essere concentrati in alcuni grandi agglomerati urbani (il 20% della popolazione vive in sei grandi città), conoscono il mondo, frequentano i social network, sanno quel che succede altrove. Chiunque abbia potuto osservare i tetti di Teheran dall’alto, li avrà visti coperti di parabole satellitari, in teoria vietate. A loro riesce sempre più difficile accettare che il Paese sia guidato da una classe di religiosi che hanno in ogni caso la preminenza sul potere politico. Con il corto circuito che inevitabilmente ne deriva.

Due Presidenti davvero riformatori sono stati finora eletti: Mohammmad Khatami (due mandati, dal 1997 al 2005) e Hassan Rohani (due mandati, il secondo scadrà nel 2020). Ma i conservatori hanno poi impedito loro di far passare le riforme davvero decisive, quelle che toglierebbero ai religiosi il controllo che esercitano, attraverso il reticolo delle fondazioni chiamate bonyad (120, esenti da tasse), sul 20% del Prodotto nazionale lordo.
L’ultimo caso, tipicissimo, è quello della crisi bancaria, innescata dalla miriade di istituti privati che operano con metodi più che discutibili e dai debiti che le aziende di Stato (cresciuti del 33,1% nell’ultimo anno fiscale) tardano a regolare, mettendo così sotto pressione gli istituti. Da tre anni il presidente Rohani cerca di far approvare una legge che aumenta i poteri della Banca Centrale e le sue funzioni di controllo, e da tre anni la legge è bloccata in Parlamento. Così il sistema scivola verso la bancarotta, mentre banchieri privati e circoli religiosi (come si diceva assai presenti nell’economia centralizzata) pensano solo a proteggere i loro interessi.Senza lavoro, senza speranze di trovarlo in fretta in un Paese in cui, come disse il presidente Ahmadinejad, 300 persone controllano il 60% della ricchezza nazionale, costretti a rispettare la shari’a. In quale nazione così tanti giovani porterebbero sempre pazienza? Se poi l’economia va male, come succede all’Iran deluso dal modesto effetto che la remissione delle sanzioni ha generato, è chiaro che il tappo prima o poi salta. E rischia di saltare anche la proverbiale coesione nazionale, perché i giovani di città, fan dello studio e dell’economia di mercato, scendono in piazza e si trovano contro i giovani poveri delle periferie e delle campagne, quelli che dal sistema delle bonyad e delle 30 organizzazioni statali di welfare traggono i maggiori benefici e sono ovviamente a favore dello status quo..

Tutto questo, come si vede, non ha nulla a che vedere con l’Occidente delle culle vuote, dove l’attenzione politica è concentrata sui bisogni dei pensionati-elettori. L’Iran prima o poi dovrà scegliere una strada, perché tenere insieme università e stalle, informatici e agricoltori, cittadini e campagnoli diventerà sempre più difficile e costoso. Ma è roba loro e la cosa più saggia sarebbe lasciarli risolvere il problema, come potranno e quando sapranno. Minacciarli non li farà andare “avanti” ma semmai tornare “indietro”.

Rivolta in IranPaese spaccato

                     Donald Trump punta il dito contro l’Iran e lo ammonisce: il mondo vi guarda. Il presidente iraniano Rouhani, invece, accusa i «nemici» del suo Paese di mestare nel torbido. L’uno e l’altro, quindi, tendono a scaricare sulla situazione internazionale il merito o la responsabilità delle proteste che da giorni scuotono la Repubblica islamica, con un tributo di sangue che continua a crescere. Certo, i recenti successi politici e militari della Repubblica islamica, a partire dalla Siria, hanno inquietato una lunga serie di Paesi e potrebbe non essere solo complottiamo pensare che Usa, Arabia Saudita e Israele abbiano qualcosa a che fare con questa crisi.
In realtà, però sbagliano sia Trump sia Rouhani, entrambi sullo stesso punto: la protesta dei giovani iraniani non è un abbozzo di rivoluzione libertaria, come piacerebbe al presidente americano, il quale non si chiede come mai gli stessi iraniani non protestassero contro il loro Governo quando questi perseguiva il nucleare anche a costo di far loro subire le sanzioni internazionali. Nello stesso tempo, ha poco a che fare con il contesto geopolitico internazionale, come ipotizza il suo collega iraniano, che pare nutrire molta sfiducia nel patriottismo dei suoi connazionali. Si tratta invece di una crisi interna che, a sua volta, rimanda a problemi tipici di tutto il Medio Oriente.
La parola-chiave è: giovani. L’Iran ha 82 milioni di abitanti e un’età media di trent’anni. È la casa, quindi, di un mare di giovani. I quali, però, non sono solo tanti ma anche colti: nel 2015 l’Iran è arrivato ad avere un tasso di iscrizione all’Università del 70% (superiore a quello di Italia, Giappone e Regno Unito), dopo aver fatto crescere il numero delle Università statali dalle 16 del 1977 alle 60 di oggi. Studiano, i giovani iraniani, si preparano anche all’estero: nell’anno accademico 2015-2016, l’Iran è stato l’11° Paese al mondo per numero di studenti mandati a specializzarsi negli Usa, ben 12.269, insieme con quasi duemila ricercatori.
Come in tutto il Medio Oriente, però, anche i giovani iraniani, quando finiscono gli studi, si scontrano con una realtà più che deludente: niente lavoro. In Iran la disoccupazione giovanile è al 26%, il doppio di quella generale. In più, una società in cui la parola decisiva spetta sempre al potere religioso, che amministra le anime con la shari’a (legge islamica) e l’economia con una rete di fondazioni (chiamate bonyad, sono 120) che non pagano tasse e valgono il 20% del Prodotto interno lordo. Al potere politico resta poco spazio. Gli iraniani hanno finora eletto due presidente decisamente riformisti (Mohammad Khatami dal 1997 al 2005) e nel 2013 Hassan Rouhani (che scadrà nel 2020), ai quali è stato impedito o quasi di fare riforme. Un esempio per Rouhani. Da tre anni rimbalza in Parlamento una sua proposta di legge per aumentare i poteri di controllo della Banca centrale, che dovrebbe così fronteggiare la crisi del sistema bancario, picconato dai metodi a dir poco discutibili di decine di banche private e dal ritardo cronico con cui le aziende di Stato pagano i loro debiti. Ma la legge non passa, boicottata dalle lobby finanziarie (banche) e da quelle religiose con interessi nell’industria statalizzata.
Tutto questo sta spaccando il Paese, come si era visto già nel 2009 con le contestazioni per la rielezione del presidente Ahmadinejad. Perché i giovani borghesi delle metropoli (il 20% degli iraniani vive in sei sole città) e delle università finiscono per avere come nemici naturali i coetanei poveri delle periferie e delle campagne, che del sistema religioso-assistenzialistico sono i primi beneficiati.
L’Iran, insomma, si avvicina a un bivio. Dovrà presto scegliere una direzione, perché tenere insieme i due mondi (città e campagne, economia di mercato e centralismo, laureati e contadini) con i soli strumenti della religione e della polizia diventa sempre più complicato e costoso. Ma questo, come ben si vede, nulla ha a che fare con i «nemici» di cui parla Rouhani né con la democrazia di cui si fa bello Trump.




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