Giuseppe Dossetti. Antisionista non significa antisemita",


La questione mediorientale secondo Dossetti 




Marco Roncalli) La rivista “Egeria” pubblica alcuni scritti del sacerdote durante i suoi anni in Terra Santa. Al  centro la sopravvivenza dei cristiani, il radicalismo islamico e il conflitto arabo-israeliano -- Era il 1972 quando don Giuseppe Dossetti si trasferì in Terra Santa, a Gerico, città a maggioranza  araba dove continuò a ruminare la Bibbia e a interrogarsi sul cristianesimo. Salvo alcuni rientri in  Italia, visse lì una decina d’anni, con la maggior parte dei fratelli della Piccola Famiglia  dell’Annunziata, mentre le sorelle stavano a Gerusalemme. Poi, fra l’ ’83 e il ’95, lo si sarebbe  potuto incontrare - come capitò a chi scrive nelle nuove case “miste” della comunità da lui fondata:  a Main (Giordania) o Ain Arik (Territori Occupati). 
Ora a quegli anni di “vita monastica” lontano  dall’Italia, è dedicato il nuovo numero della rivista  Egeria  edita  da Nerbini. Introdotta da Marco  Giovannoni, la monografia scandaglia quel periodo attraverso contributi differenti. Di carattere  teologico e storico sul pensiero di Dossetti a proposito del «mistero di Israele» (Fabrizio Mandreoli) e dell’«islam enigma post-cristiano» (Ignazio De Francesco); di taglio geopolitico (Enrico  Galavotti) e biblico (Giuseppe Ferretti e Nicola Apano); infine in relazione alla «scoperta delle  Chiese orientali» (Tommaso Bernacchia). Si tratta di saggi che offrono testi inediti o poco circolati,  avendo Dossetti connotato la sua presenza laggiù con nessun altro fine che «l’incoraggiare i  cristiani a restare», «l’attestare ascolto e attenzione verso non poche rivendicazioni islamiche». Ed  essendosi impegnato a rompere il silenzio solo quando necessario: cosa verificatasi più volte come  documentano qui in particolare i saggi di De Francesco e Galavotti. 
Il primo, ad esempio,  restituendoci la forte consapevolezza degli effetti del conflitto araboisraeliano sull’inasprirsi del  radicalismo islamico e la sopravvivenza delle locali comunità cristiane, come pure una lettura  dossettiana della politica di Israele nella sua «funzione catalizzatrice di ogni contrasto fra cristiani e  musulmani» (8 novembre ’78): nella previsione di una radicalizzazione dell’islam - effetto degli  sconvolgimenti geopolitici nell’area - diventerà denuncia pubblica nel ’90, con una lettera non  firmata al  Regno  all’avvio  della Guerra del Golfo. «L’islamismo radicale aveva bisogno di questo e  ne trarrà vantaggio. Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l’Occidente si troverà di fronte un  islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile, sia nei paesi  musulmani che nell’Europa stessa. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa...». Il tema,  dilatato agli effetti dei flussi migratori musulmani verso Occidente, insieme alla questione del  risveglio politico dei popoli arabi e alla ripresa del loro messaggio religioso, costituirà riflessione  costante nell’ultimo periodo della vita di don Giuseppe. Spesso in un intreccio fra teologia e  geopolitica. Basterà qui ricordare l’inedito discorso ai seminaristi di Venegono il 30 marzo ’93.  Disse in quell’occasione: «Non so se voi vi rendete conto di quel che significa per il nostro paese  inserito nel Mediterraneo a poche centinaia di chilometri dalla sponda africana, l’islam [...]. L’islam ha una formulazione religiosa incomparabile, di una semplicità che può soddisfare i bisogni  fondamentali dell’uomo e la sua intelligenza razionale [...]. È un monoteismo puro nella sua  espressione più radicale, facilmente convertibile in una forma di secolarizzazione aggressiva.  Quindi con una carica poi demografica enorme e con una esigenza di espansione incoercibile. Altro  che comunismo! [...]. So che ci possono essere formule più domestiche o addomesticabili, ma non  il nocciolo duro dell’Islam». Commenta De Francesco che è difficile concludere da queste parole se Dossetti davvero pensasse a una conversione dell’Europa all’islam, come sistema dottrinale  potenzialmente sostitutivo di ideologie precedenti. Di certo si tratta di espressioni forti. 
Resta, ciò nonostante, il suo interrogarsi mite innanzi all’islam «enigma della storia», insieme al suo «essere lì dove i musulmani sono»; resta, innanzi a questo «mistero tremendo», l’impegno affidato  in tre frasi dettate nell’introduzione a Main dell’adorazione eucaristica comunitaria al venerdì, al  contempo intenzioni di preghiera e programma d’azione: «1. Per i credenti dell’islam e la loro piena conversione al Signore Gesù; 2. Per la nostra comprensione e discernimento più profondo in merito  all’islam; 3. Per il rapporto della Chiesa e delle chiese con i musulmani». Di grande interesse, poi,  nel numero di  Egeria,  il contributo di Galavotti, che richiama tappe della biografia e del pensiero  dossettiano utili a spiegarne l’evoluzione di posizioni. Ad esempio quella sfociata in una  desacralizzazione del blocco occidentale a guida statunitense, che si avverte nell’articolo «Inchiesta  sull’America» uscito su  Cronache Sociali  nel ’47, sempre attribuito ad Alberto Toniolo, in realtà di  Dossetti, dove addirittura registra la presenza «nel paese della libertà individuale e della felice  stabilità sociale» di «alcune caratteristiche essenziali dei totalitarismi fascisti o del collettivismo  marxista», nonché il profilarsi all’orizzonte americano del dilemma tragico sovrastante l’Europa  «cioè la scelta tra una frattura rivoluzionaria o una reazione autoritaria all’interno e imperialista  all’estero». Altro passaggio su cui fermarci del testo di Galavotti quello dedicato alla reazione di  Dossetti dopo le stragi di Sabra e Chatila. In quell’occasione, per non far passare il suo silenzio  come condiscendenza o complicità scrisse che si era consumato nei campi profughi un «delitto  senza ragione, nemmeno apparente di sicurezza militare, delitto a carico di vittime innocenti coperte poi dalla faccia della terra con i bulldozer» aggiungendo che «la responsabilità del governo  israeliano e del suo esercito» era «palese a tutto il mondo», aggiungendovi l’aggravante dell’aver  addossato l’esecuzione materiale del massacro a milizie ricordate per l’occasione come  “cristiane”...». 
Quando nel 1986, alla consegna dell’ Archiginnasio d’oro a Bologna, ripercorse la  sua autobiografia, indicò nella sua persona da un lato «la memoria indelebile dell’olocausto ebraico  e un’apertura e una sensibilità consonanti con la grande tradizione dell’Israele eterno - l’Israele  spirituale...», dall’altro la «consapevolezza che il mondo intero, specialmente il nostro mondo  occidentale (prima e più ancora che lo stesso Stato israeliano) ha commesso - e continua a  commettere - nei confronti degli arabi palestinesi un’enorme ingiustizia (qualunque sia il loro errore o la loro colpa) e che la pace - nello stesso interesse dello Stato di Israele - non potrà esservi senza  una riparazione effettiva delle ingiustizie consumate e senza la restituzione di una parte dei  territori». Galavotti ricorda anche le reazioni di Dossetti dopo il bombardamento della Libia del  1986 e Desert Storm, vaticinio sulle conseguenze portatrici di «tumultuose reazioni fra molti stati  più o meno coinvolti»; «reazioni che nessuno sarà più in grado di dominare, e non solo in tutti i  paesi arabi». Diversamente da occasioni precedenti, Dossetti invece lasciò circolare solo tra i  membri della Piccola Famiglia la sua reazione all’attentato del ’94 presso la moschea di Hebron del  colono Baruch Goldstein, dove morirono ventinove persone e centoventicinque furono ferite. Una  strage che Dossetti dichiarò sacrilega, spiegabile a suo vedere «solo con l’aberrante cultura che ha  dominato per anni gli inizi e il proseguimento sino ad ora dello Stato sionista», la cultura incarnatasi «nella politica degli insediamenti» e «nella prassi quotidiana dell’esercito israeliano» accusato di  aver risposto per anni «a isolate azioni terroristiche arabe con i bombardamenti di massa  indiscriminati e le sue implicazioni». Parole giunte ad oltre vent’anni dall’arrivo in Medio Oriente e precedevano di due anni la sua morte. Bilancio di riflessioni di anni spesi nella convinzione che le  grandi strutture ideologiche e politiche - pilastri del mondo non potevano accontentare i cristiani e  dare loro pace: perché, come disse ad alcuni pellegrini in Terra Santa nel ’90 «consumano troppe  ingiustizie e consumano troppa realtà umana».
***** 
Il testo. Antisionista non significa antisemita 
di Giuseppe Dossetti

Alcuni dei dogmi più indiscussi su cui sinora si è fondata l'opinione occidentale relativa al conflitto mediorientale, debbono proprio essere rifiutati. Si deve rifiutare, per esempio, che lo Stato sionista, così come è nato e sinora si è configurato, possa tollerare nel proprio interno l'esistenza di una popolazione araba. E’ ora che proclamiamo chiaramente che questo non è possibile. Sinora noi stessi, per venti e più anni, su questo punto siamo stati reticenti. Ci siamo anche noi lasciati intimidire nella memoria dell'Olocausto e dal ricatto che qualunque manifestazione di antisionismo equivale all'antisemitismo, del quale i cristiani si sono resi più volte colpevoli. Anche noi, alla fine, non siamo arrivati a separare il puro dall'impuro. Cioè ben altro è il piano dell'ebraismo in quanto religione dei Padri; e invece il piano di una concrezione politica, il «sionismo realizzato», intrisa di grossolani errori, di smisurate violenze e ingiustizie, e adesso di sacrilegi sanguinosi. E anche noi siamo stati timidi nell'affermare che gli arabi palestinesi, pur con i loro molti errori e le loro violenze deprecabili, hanno però conservato il diritto di vivere nella terra che è stata pur loro, in piena sovrana autonomia, e che perciò hanno il diritto di essere reintegrati per lo meno in tutti i territori occupati nel 1967, in uno Stato libero e sovrano, con tutte le garanzie che la comunità internazionale deve ad essi offrire non solo per il loro bene, ma per il bene e la pace di tutti i popoli della terra. 

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