ZEITUN : articoli sulla posizione dell'ANP, Israele , Trump
1 L’ANP sta sfruttando la storia invece di affrontare la realtà
9 gennaio 2018, Middle East Monitor
Solo
una settimana dopo che il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese
Mahmoud Abbas ha dichiarato che importanti decisioni verranno prese nel
2018, ci sono già degli indizi che una delle priorità sia prolungare lo
stallo politico a beneficio di Israele.
Lunedì
l’agenzia Wafa [agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ndt.] ha
informato che il comitato centrale dell’OLP [Organizzazione per la
Liberazione della Palestina, che riunisce la maggior parte dei gruppi
politici palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.] terrà un incontro il
14 gennaio, apparentemente per “cercare una nuova prospettiva politica”
riguardo alle conseguenze dell’annuncio del presidente USA Donald Trump
del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.
La
breve nota di stampa si riferisce a una dichiarazione del presidente
del consiglio nazionale palestinese [il parlamento dell’OLP, ndt.],
Salim Zanoun, che ha fornito ulteriori dettagli sull’imminente incontro.
Tra le questioni citate c’è un riesame dello scenario politico dagli
accordi di Oslo, l’unità nazionale e il rinnovamento della “resistenza
popolare non violenta contro l’occupazione israeliana”. La riunione,
secondo Zanoun, sarà aperta a tutte le fazioni palestinesi, compreso
Hamas.
Continuare
ad avere contrasti insanabili rimane una priorità per Ramallah.
Israele, rafforzato dalla decisione unilaterale su Gerusalemme da parte
degli USA, si è avvalsa del momento per rafforzare ulteriormente
l’usurpazione del territorio palestinese. Invece i dirigenti dell’OLP
staranno a riepilogare un passato che è stato analizzato ed esaminato
dai suoi inizi, con l’insistenza condivisa sul fatto che il ruolo degli
accordi [di Oslo] è stato di creare nuovi livelli di dipendenza e di
violenza per i palestinesi. Pertanto la nuova prospettiva politica cui
allude Zanoun è una prassi di risposta diplomatica dilatoria. Anche se
il contesto storico è sempre importante e dovrebbe far parte di ogni
analisi sull’attualità, sfruttare la storia con l’intento di allontanare
l’attenzione dalle attuali violazioni dimostra la politica di
esclusione che caratterizza l’ANP.
L’ANP
è stata in grado di mettere in pratica una simile politica per fornire
dei vantaggi ad Israele. Mettendo ai margini altre fazioni palestinesi,
soprattutto Hamas, Abbas si è scavato una nicchia in cui la
dissociazione tra la dirigenza e il popolo è arrivata a livelli
pericolosi. A prescindere dalle attuali circostanze, comprese le
proteste su Gerusalemme che la stessa ANP ha cercato di capitalizzare
senza responsabilità riguardo la sicurezza dei civili, gli accordi di
Oslo forniranno ora un temporaneo piedistallo come metafora per la messa
in atto di ulteriori ritardi. Mentre Israele colonizza il territorio,
la dirigenza palestinese collabora con questo processo con diverse forme
di mistificazione. Queste tattiche rendono già vuoto di senso
l’incontro, per non parlare della prova evidente di come gli accordi
hanno contribuito alla frammentazione della Palestina con l’approvazione
internazionale.
Oltretutto
invitare Hamas a partecipare alla riunione dopo gli ultimi mesi di
pressioni costituisce un’altra forma di mistificazione. Le fluttuazioni
su Gaza sono dannose per l’enclave – ogni serie di violazioni è
rapidamente dimenticata per spianare la strada a quelle che seguono, che
sia una promessa di ricostruzione o di un graduale ripristino della
fornitura elettrica, che è ancora inadeguata. La stessa manipolazione
viene applicata quando il degrado della situazione umanitaria non è più
una preoccupazione politica di Abbas.
Ci
sono due principali tattiche utilizzate a questo proposito. Una è che
Abbas conservi l’apparenza della riconciliazione e dell’unità nazionale.
L’altra è la normalizzazione delle privazioni che hanno precipitato
Gaza nella scelta tra due scenari disastrosi. La partecipazione di Hamas
a questo imminente incontro rafforzerà questa dinamica, in cui la
marginalizzazione del movimento avverrà comunque in entrambi i casi.
Tuttavia, data l’insistenza sul discutere di Oslo decenni dopo il
prolungamento della violenza coloniale sui palestinesi da parte
dell’ANP, è importante ricordare che i fondamenti dell’unità nazionale
non possono essere formulati da Abbas, data la sua dipendenza dal
contesto che sostiene politiche autoritarie a spese dei palestinesi.
(traduzione di Amedeo Rossi)
2
Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”
Jack Khoury
15 gennaio 2018, Haaretz
Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” ■ Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”
Domenica
il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso
gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha
definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald
Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.
Abbas
ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di
Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e
un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i
finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati
sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”
Ha
aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della
comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale
creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di
essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo
politico che riguardi i negoziati.
L’ambasciatore
USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine
dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di
incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi
con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a
Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di
colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua
scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”
Il
consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio
del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che
Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti
che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington.
Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i
palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump
di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”
Noi
siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito
al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e
il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti,
e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è
sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al
ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci
appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti
quanti all’inferno.”
Poi
Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a
chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour
[in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un
“focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che
riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl
‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione.
Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità
di sbarazzarsi dei palestinesi.”
Abbas
ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati
portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno
partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo
l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza
patirne le conseguenze.
Abbas
ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata.
Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al
ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio
per pregare nella moschea di Al-Aqsa.
La
nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del
’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni
della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i
rifugiati.
Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.
Gli
americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22
organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo
detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici
dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che
riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.],
non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero
congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di
conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle
organizzazioni.
Abbiamo
accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i
palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli
americani hanno posto il veto.
Israele
ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra
generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione
abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo
molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato
Israele alla FIFA.
Pubblicheremo
una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo
pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di
corruzione.
I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.
Le
famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla
Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità
internazionale.
Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.
Non
saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi.
Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a
livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare
con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati
dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”
Il
capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese
che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il
dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz:
“Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno
esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i
palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna
imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte
mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi
lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con
gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”
Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.
L’incontro
di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo
dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti
della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti
organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi
avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.
Il
portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare
l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un
altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali
rappresentanti di tutte le fazioni.
Haaretz
è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il
fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato
Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di
proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il
coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha
violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a
continuare a rispettare i patti.
Altri
membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con
i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni
Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il
riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei
confini del 1967.
Secondo
funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in
pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione
internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per
risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero
essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo
politico.
Il
vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi
hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale.
“Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad
un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha
aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad
abbandonare gli amici di Fatah.
Al-Aloul
ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue
decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che
devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del
riconoscimento di Israele.
Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.
Haaretz
ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi
come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in
particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire
un’azione a livello internazionale e diplomatico.
Un
altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di
riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così
come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto
occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte
Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro
Israele.
Il
consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce
quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale
Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione
della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo
dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza,
raccomandazioni relative alle politiche.
Un
importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz
che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas
hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.
(traduzione di Amedeo Rossi)
3
Imporre la pace: Trump e i palestinesi
18 dicembre 2017, Al Shabaka
L’annuncio
del presidente Donald Trump secondo cui riconosce Gerusalemme come la
capitale di Israele rappresenta il culmine della politica estera USA
durante settant’anni in cui l’obiettivo del processo di pace è stato
imporre una soluzione ai palestinesi.
Eppure per circa trent’anni la strategia della dirigenza palestinese è
stata l’esaltazione della prevalenza dei negoziati e di politiche
guidate dall’élite. Si è concentrata sul garantire la lealtà dei
palestinesi al suo programma politico attraverso il clientelismo e la
repressione. La dirigenza ha messo da parte, se non danneggiato
attivamente, l’organizzazione di base ed ha consumato le istituzioni
nella vana e sempre più disperata speranza che i suoi sforzi sarebbero
stati premiati dagli Stati Uniti e da Israele. Al contempo la sua
politica ha garantito che la ristretta cerchia che beneficia del
processo di pace e dell’occupazione israeliana resistesse. I risultati
di questa strategia sbagliata sono apparsi evidenti con l’annuncio di
Trump, ma sono stati evidenti anche da parecchio tempo.
L’Autorità
Nazionale Palestinese dipende dall’appoggio finanziario, soprattutto
degli Stati Uniti. Pertanto è improbabile che faccia ricorso nel breve
termine a qualcosa di più che iniziative retoriche e simboliche e vuote
minacce. Continuerà a concentrarsi sulle élite internazionali e potrebbe
tentare di trovare un nuovo mediatore per i negoziati con Israele.
Tuttavia non ci sono ragioni per cui Israele riprenda i negoziati in
questo momento e consenta che emerga un nuovo mediatore. Se la dirigenza
palestinese è seria in merito a un cambiamento rispetto alla soluzione
dei due Stati, come ha sostenuto recentemente uno dei suoi
rappresentanti, allora l’unica iniziativa significativa che potrebbe
prendere è lo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Benché
un’azione così drammatica obbligherebbe Israele, gli Stati Uniti, i
Paesi arabi e la comunità internazionale nel suo complesso ad una
risposta, ciò implicherebbe che la dirigenza abbandonasse la propria
posizione ed i propri privilegi. Ciò è ancora più improbabile che
l’apparizione di un nuovo mediatore per i negoziati di pace che sfidi
gli Stati Uniti.
La dichiarazione di Trump: settant’anni di preparazione
Il
processo di pace può essere di fatto diviso in due periodi. Nel primo,
dalla fine della guerra palestinese del 1948 e della Nakba [la
“catastrofe”, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi ad opera
delle milizie sioniste, ndt.] fino a metà degli anni ’70, gli Stati
Uniti hanno cercato di ignorare la questione palestinese concentrandosi
sugli Stati arabi. I palestinesi vennero trattati come un problema
umanitario che doveva essere risolto senza il loro intervento piuttosto
che una questione politica che li includesse come parte dei negoziati.
Mentre
gli Stati arabi erano generalmente disponibili a un accordo di pace con
Israele a patto che il problema dei rifugiati palestinesi venisse
risolto, Israele rimase il principale impedimento. L’intransigenza
israeliana non fece che aumentare dopo la guerra del giugno 1967 e
l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est, della Striscia di
Gaza, del Sinai e delle Alture del Golan. Subito dopo la guerra del
giugno 1967 gli Stati Uniti misero in rilievo negoziati “terra in cambio
di pace”, soprattutto con l’Egitto e con la Giordania. Continuarono ad
ignorare l’emergere di organizzazioni politiche palestinesi, compresa
Fatah, che col tempo avrebbe dominato l’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP).
In
seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, Washington
sembrò più interessata ad affrontare le rivendicazioni palestinesi.
Eppure nel secondo periodo del processo di pace Washington cercò di
limitare o sabotare la partecipazione dei palestinesi alle trattative.
Pubblicamente ciò venne ottenuto imponendo all’OLP richieste perché
dimostrasse la sua adeguatezza come partner nei negoziati. Washington
insistette che l’organizzazione accettasse le risoluzioni 242 e 338 del
consiglio di sicurezza dell’ONU e riconoscesse Israele.
In
privato gli Stati Uniti ed Israele si coordinarono nei negoziati e
Washington accettò di appoggiare, se non assecondare, la posizione
israeliana sulle questioni chiave. Quindi Washington chiese all’OLP di
fare importanti concessioni solo per partecipare ai negoziati, senza
alcuna garanzia che avrebbero avuto successo. Gli accordi segreti e il
coordinamento tra gli Stati Uniti ed Israele servirono a garantire che
qualunque accordo sarebbe stato a scapito dei palestinesi.
Il mito del mediatore imparziale
Il
concetto secondo cui gli Stati Uniti sono un “mediatore imparziale” è
stato perpetuato da diplomatici americani egocentrici, da politici e
dalla stampa. Non ha nessuna base nella realtà storica del conflitto
arabo-israeliano e del processo di pace. L’eccessivo ruolo di Washington
è in parte un riflesso del suo status come unica superpotenza che ha
forgiato l’ordine internazionale e le istituzioni dopo la Seconda Guerra
Mondiale. C’è spesso un malinteso fondamentale sulla Guerra Fredda e
sull’influenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sulla scena
mondiale. Benché fossero in competizione, Washington era e rimase molto
più potente e influente di Mosca sul piano politico, economico e
militare.
Benché
la posizione internazionale dell’America nei primi anni ’70 fosse
ridotta a causa della guerra del Vietnam, la guerra arabo-israeliana del
1973 fornì a Washington un’opportunità per ribadire la propria
influenza in Medio Oriente attraverso il processo di pace. Gli Stati
arabi e i palestinesi non videro gli Stati Uniti come un mediatore
imparziale. Semmai vennero visti come l’unico potere che sembrava in
grado di imporre concessioni da parte di Israele. La nozione secondo cui
gli USA potessero aiutare ad ottenere la pace con Israele era promossa
dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato e consigliere per
la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, in quanto essi intendevano
contenere l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione ed a livello
internazionale. Ciò è stato dimostrato dalla deliberata politica di
Kissinger nei confronti del processo di pace, che intendeva escludere
Mosca dai negoziati e rompere la posizione negoziale araba unitaria.
Gli
accordi di Camp David del 1978 ed il trattato di pace finale tra Egitto
ed Israele confermarono la strategia di Kissinger, che venne adottata
dalle successive amministrazioni americane e le influenzò. Anche se
Washington riuscì a contribuire a raggiungere la pace tra Egitto ed
Israele, quello che è spesso trascurato è che le concessioni di Israele
vennero fatte a spese dei palestinesi che vivevano sotto occupazione. Né
gli accordi di Camp David comportarono successivi accordi di pace, come
sperava il presidente Jimmy Carter, o ulteriori concessioni
territoriali da parte di Israele.
Gli
accordi di Oslo rafforzarono ulteriormente queste politiche. Washington
non venne coinvolta nei negoziati originari né nella dichiarazione di
principi del 1993. In effetti, una volta che il processo venne
monopolizzato dal presidente Bill Clinton, i negoziati sullo status
finale vennero rimandati e alla fine fallirono. Come le precedenti
amministrazioni americane, Clinton si mise d’accordo in pubblico ed in
privato con Israele. L’amministrazione Clinton si accordò segretamente
con l’allora ed attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu,
per discutere ogni proposta americana con Israele prima di presentarla
al gruppo di negoziatori palestinesi.
Benché
finalmente i palestinesi avessero un posto al tavolo dei negoziati
quasi alla pari con gli israeliani, ed al presidente dell’OLP Yasser
Arafat venisse consentito di recarsi varie volte alla Casa Bianca di
Clinton, il ruolo di Washington era ancora quello di imporre un accordo
di pace. Da Arafat e dalla neonata Autorità Nazionale Palestinese ci si
aspettava che applicassero una pace inaccettabile e un’occupazione
continua in cambio di una parvenza di statualità, ma senza una vera
sovranità. A dispetto di tutte le iperboli sulla “generosa offerta” a
Camp David nel 2000, Israele e l’allora primo ministro Ehud Barak non
avevano intenzione di accettare neppure l’apparenza di uno Stato
palestinese e di una Gerusalemme divisa. Guarda caso il fallimento dei
negoziati per lo status finale venne attribuito ai palestinesi e ad
Arafat, ma le sue radici risalgono al costante approccio al processo di
pace fin dal suo inizio.
Il ruolo della politica USA
Benché
gli Stati Uniti conservino la posizione dominante sulla scena mondiale,
la loro politica interna è provinciale e guidata dai cicli elettorali
di due e quattro anni. La necessità di ottenere fondi per le campagne
delle elezioni politiche per il Congresso e per la presidenza si traduce
nell’eccessiva influenza di importanti donatori su questioni di
politica, compresi i rapporti internazionali. Ciò è risultato evidente
nella volontà dei candidati presidenziali, compreso Barak Obama nel
2008, di dichiarare pubblicamente che Gerusalemme “dovrebbe rimanere la
capitale di Israele e dovrebbe restare indivisa” durante le elezioni, ma
di rimandare questa iniziativa fino al raggiungimento di un accordo
finale.
Gli
sconfortanti livelli di gradimento e gli scarsi risultati di Trump dopo
circa un anno in carica hanno contribuito alla decisione su
Gerusalemme. In particolare ciò potrebbe aiutare le possibilità del
partito Repubblicano di conservare la sua maggioranza nelle elezioni di
metà mandato del 2018 e le speranze di rielezione di Trump nel 2020. È
probabile che l’annuncio rafforzi la posizione di Trump tra la base
cristiana evangelica del partito Repubblicano ed alcuni importanti
esponenti si sono affrettati ad acclamare l’annuncio. Questo soddisferà
anche i principali donatori di fondi come Sheldon Adelson, un
sostenitore di spicco delle colonie israeliane. Poiché la decisione ha
un sostegno trasversale, compresi importanti dirigenti democratici, ciò
potrebbe anche rendere Trump e il partito Repubblicano più graditi per i
votanti filo-israeliani in Stati chiave in cui le elezioni sono sempre
più combattute a causa di mutamenti demografici.
Manovre regionali
In
quanto debole attore senza uno Stato, i palestinesi sono stati soggetti
alle dinamiche regionali e alle politiche della grande potenza. Ciò
include regimi che sono stati ostili al nazionalismo palestinese, come
la Giordania, o quelli che intendono strumentalizzare i partiti politici
palestinesi in competizione tra loro per i propri scopi e progetti
regionali, come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. Washington ha spesso
cercato di fare pressione sui dirigenti palestinesi attraverso gli Stati
arabi con risultati alterni.
Nel
loro tentativo di stringere un’alleanza contro l’Iran che includa
Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero tentare
di obbligare Mahmoud Abbas e la dirigenza palestinese ad accettare un
accordo di pace. Tuttavia si renderanno conto che l’ostacolo non è
rappresentato da Ramallah. Piuttosto, come altri leader arabi hanno
imparato in ritardo, Israele incasserà ogni concessione facendo al
contempo altre richieste e saboterà negoziati che possano dare come
risultato uno Stato palestinese. L’annuncio di Trump su Gerusalemme,
presumibilmente con il tacito accordo di Riyadh e di altre capitali
arabe, ricompensa esclusivamente l’intransigenza di Israele a spese dei
palestinesi che vivono sotto occupazione e nella diaspora.
Consigliere
politico di Al-Shabaka, Osamah Khalil è co-fondatore ed ex co-direttore
di Al-Shabaka. È professore associato di storia presso la Maxwell
School of Citizenship and Public Affairs dell’università di Syracuse.
Khalil è autore di “America’s Dream Palace: Middle East Expertise and the Rise of the National Security State” [Il
posto dei sogni dell’America: la conoscenza del Medio Oriente e la
nascita dello Stato della Sicurezza Nazionale] (Harvard University
Press, 2016).
(traduzione di Amedeo Rossi)
4
Perché tagliare gli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese non è una cattiva idea
Se
gli USA tagliano gli aiuti alla Palestina, ciò potrebbe obbligare i
palestinesi ad avere il coraggio politico di prendere posizione per i
propri diritti
Molti
osservatori ed analisti ammoniscono che il taglio degli aiuti USA
all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è pericoloso e potrebbe
minacciare la stabilità. Alcuni hanno persino sostenuto che la minaccia
del presidente USA Donald Trump riguardo ai fondi per i palestinesi è
più pericolosa della sua decisione di spostare l’ambasciata USA in
Israele a Gerusalemme.
“Pensa
che i giorni dell’ANP ormai siano contati?” è una delle domande più
ricorrenti da parte dei giornalisti negli ultimi giorni dopo la
dichiarazione di Trump secondo cui “diamo ai palestinesi centinaia di
milioni di dollari all’anno e non riceviamo né apprezzamento né
rispetto. Non vogliono neppure negoziare, cosa da tempo necessaria.”
Azioni contro i palestinesi
Trump
ha proseguito dicendo: “Se i palestinesi non vogliono più parlare di
pace, perché dovremmo fargli questi massicci versamenti in futuro?”
Tuttavia, la minaccia di Trump di ritirare gli aiuti all’ANP non dovrebbe essere una sorpresa.
L’aiuto
degli USA è sempre stato usato come strumento politico e le condizioni
ad esso legate sono state deleterie e dannose per i palestinesi.
Ma
nel caso in cui la minaccia di tagliare gli aiuti all’ANP si
concretizzi, sarebbe davvero una cosa così negativa? Io sostengo di no;
non sarebbe poi così male. Presumibilmente potrebbe dimostrarsi un
vantaggio – probabilmente non a breve termine, ma sicuramente a lungo
termine.
In
buona misura l’aiuto degli USA all’ANP intende consolidare il ruolo
dell’ANP come sub-appaltante dell’occupazione israeliana ed ha reso
l’occupazione israeliana più economica e più lunga, cosa che ha favorito
l’economia di Israele, ha rafforzato la frammentazione palestinese ed
ha negato le potenzialità della democrazia palestinese. Per tutte queste
ragioni, il taglio degli aiuti USA all’ANP non è così negativo.
Il
primo e principale obiettivo degli USA per la Palestina è promuovere
“la prevenzione o riduzione del terrorismo contro Israele”. In altre
parole, l’aiuto è fornito ai palestinesi per la sicurezza di Israele; ma
ciò è un sostegno per i palestinesi o per Israele?
Il paradigma “prima Israele”
Secondo
questo paradigma securitario “prima Israele”, l’amministrazione USA ha
versato milioni di dollari di assistenza per la sicurezza all’ANP come
un modo per “professionalizzare” le sue forze di sicurezza per la
stabilità e la sicurezza di Israele, della sua occupazione e dei coloni
nella Cisgiordania occupata.
Questa
logica distorta implica che l’ANP diventi subappaltante
dell’occupazione israeliana, grazie all’aiuto e al condizionamento da
parte degli USA.
Ciò
non solo sostiene l’occupazione israeliana, ma la rende anche
conveniente per Israele, la sua economia e le sue imprese. L’assistenza
USA ai palestinesi è spesso utilizzata per pagare direttamente i
creditori dell’ANP, molti dei quali sono imprese israeliane che
impongono tariffe predatorie ed approfittano dell’economia dell’ANP
tenuta in stato di soggezione.
Inoltre
la maggioranza degli aiuti USA alla Palestina (oltre il 72%),
soprattutto l’aiuto per la sicurezza, finisce nell’economia israeliana.
Quindi larga parte dell’”assistenza” USA ai palestinesi di fatto si
trasforma in un’ulteriore appoggio ad Israele e ai suoi apparati di
sicurezza.
Gli
aiuti USA hanno anche rafforzato la frammentazione palestinese
nell’ultimo decennio ed alimentato la divisione tra la Cisgiordania e la
Striscia di Gaza. Inoltre, gli aiuti non solo negano il potenziale
democratico palestinese ma anzi facilitano l’emergere di un governo di
stile autoritario in Cisgiordania.
Guidati
dal loro progetto securitario, i programmi per la sicurezza
sponsorizzati dagli USA tendono a criminalizzare la resistenza contro
l’occupazione israeliana e a reprimere i bisogni e le aspirazioni del
popolo palestinese.
L’intervento degli aiuti USA
Le
operazioni e gli interventi della “United States Agency for
International Development” [Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo
Internazionale, agenzia statale USA, ndt.] (USAID), e l’ufficio del
Coordinatore per la Sicurezza USA (USSC), sono stati determinanti nel
provocare tutti questi danni. Così facendo, queste due istituzioni non
solo violano principi internazionali fondamentali di erogazione
dell’aiuto, ma agiscono anche concretamente come braccio complementare
dell’occupazione coloniale israeliana.
Certamente
questi danni e le conseguenze negative dell’intervento di aiuti USA non
saranno automaticamente annullati se si concretizzasse la minaccia di
Trump di tagliare gli aiuti.
La
situazione è molto più complicata, in quanto richiede lo smantellamento
di strutture, dinamiche e istituzioni complesse, che sono emerse e si
sono consolidate nell’ultimo quarto di secolo.
A
questo punto è fondamentale che i palestinesi non si lascino prendere
dal panico e non maledicano la sorte per “aver perso” da 300 a 400
milioni di dollari all’anno; dovrebbero agire – ed hanno parecchie
possibilità. Per iniziare, dovrebbero chiedere conto ad USAID e
all’USSC, e dovrebbero revocare le esenzioni amministrative che il
defunto leader palestinese Yasser Arafat ha concesso a USAID per agire
senza alcuna supervisione palestinese.
Invertire il processo di valutazione
È
tempo di invertire il “processo di valutazione”: invece di USAID che
valuta i palestinesi, è tempo che i palestinesi facciano la necessaria
valutazione di USAID e degli altri enti USA dell’industria degli aiuti
in Palestina.
Fare
ciò richiede volontà politica e coraggio nella dirigenza politica
palestinese. Purtroppo, l’attuale leadership palestinese rimane legata
al suo approccio ed alle sue formule fallimentari.
L’incapacità
della dirigenza ANP di mettere in atto piccole azioni, come revocare le
esenzioni amministrative a favore di USAID, riflette una più profonda
crisi di legittimità ed evidenzia le mosse tattiche dell’attuale
dirigenza ANP nel prendere tempo, per rimanere al potere o risistemare
le carte dei colloqui di “pace”. Bisogna assolutamente contrastare
queste idee e sostituirle con nuovi indirizzi strategici che siano
dettati dal popolo palestinese.
Tuttavia
la principale sfida che rimane è come incanalare le richieste e le
aspirazioni del popolo palestinese in una politica legittima e in
istituzioni rappresentative.
Dal
punto di vista della gente comune palestinese, nel caso in cui la
minaccia di Trump di tagliare gli aiuti si concretizzi ci saranno
conseguenze negative a breve termine. Ma è fondamentale anche
riconoscere che l’aiuto all’ANP non si traduce automaticamente in
assistenza al popolo palestinese.
È
fuorviante ritenere che gli aiuti e i loro benefici arrivino fino alla
gente comune palestinese. L’industria dell’aiuto è destinata a
beneficiare pochi e a danneggiare molti.
Sam
Bahour, il presidente di “Americans for a Vibrant Palestinian Economy”
[Americani per un’Economia Palestinese Dinamica”, ndt.] recentemente ha
affermato: “Non perderò certo il sonno se il Congresso bloccherà
totalmente i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò non
renderà la vita quotidiana più facile sotto l’occupazione, ma forse farà
aprire gli occhi ad un numero sufficiente di dirigenti americani perché
vedano l’assurdità di farsi prendere in giro come un gregge di pecore
dal loro pastore israeliano.”
Neppure
io perderò il sonno. Anche se il taglio degli aiuti USA avrà qualche
conseguenza negativa sulla vita dei palestinesi, le prospettive a lungo
termine potrebbero dimostrarsi più positive, in quanto questa iniziativa
potrebbe spingere l’ANP ad abbandonare il quadro del modello di aiuti
degli accordi di Oslo. È tempo di confutare il fallito modello degli
aiuti di Oslo.
Ma
un processo di eliminazione graduale richiede azioni serie, passi
concreti e chiari e un piano nazionale di azione/aiuto per una
transizione verso una formula successiva ai due Stati e un contesto
successivo agli accordi di Oslo.
Infine,
benché l’assistenza umanitaria sia importante, quello che più importa
per il palestinese comune non è un buono per comprare grano o sardine,
ma piuttosto basi politiche per lottare contro la negazione dei suoi
diritti.
Finché
queste basi politiche non saranno affrontate, e indipendentemente da
quanto grande sia il flusso degli aiuti, i palestinesi comuni non
avranno la percezione di un risultato positivo degli aiuti, che siano
americani, europei o arabi.
La
minaccia di Trump di tagliare gli aiuti offre al palestinese comune una
nuova opportunità di mettere i principi di autodeterminazione e dignità
al centro del contesto e della macchina degli aiuti.
Dr Alaa Tartir è
direttore del programma di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, e
ricercatore presso il Centre on Conflict, Development and Peacebuilding [Il Centro su Conflitto, Sviluppo e Costruzione della Pace] (CCDP), del Graduate Institute of International and Development Studies [Istituto Universitario di Studi Internazionali e dello Sviluppo] (IHEID)di Ginevra, Svizzera.
Le
opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono
necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
(traduzione di Amedeo Rossi)
- Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”
- L’ANP sta sfruttando la storia invece di affrontare la realtà
- Imporre la pace: Trump e i palestinesi
- Perché tagliare gli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese non è una cattiva idea
- Tra i ritardi dell’ANP e le minacce di Israele, Gaza sta andando verso l’ignoto
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