Integrazione, diritti umani, Mediterraneo: intervista a Moni Ovadia

 
 
 
"La capacità di accogliere richiede un cammino fatto di impegno". Intervista all'attore, registra e scrittore Moni Ovadia su integrazione, diritti umani e…
terredifrontiera.info



Lo spettacolo sta andando molto bene, i teatri sono sempre pieni. La gente è contenta, noi un po’ meno.” Moni Ovadia non ama prendersi troppo sul serio. In tour per l’Italia con “Il casellante di Andrea Camilleri” e il “Cabaret Yiddish”, trova il tempo per fermarsi a discutere con noi. Una lunga chiacchierata incentrata sul tema del migrante e sulle politiche d’accoglienza. Ma, soprattutto, sull’ansia e la voglia di conoscere, ascoltare, raccontarsi, per scoprire l’Altro. “Io credo”, ci confessa, “che il vero viaggio che un uomo deve fare nella vita sia il viaggio verso l’altro. Che è, in definitiva, il viaggio verso se stessi. L’altro è quello in cui puoi specchiarti, puoi vedere i tuoi pregi e i tuoi limiti. Ho imparato che solo attraverso la relazione si può scoprire il senso vero dell’esistenza.”
Maestro, vorrei partire dal monologo interpretato da Pierfrancesco Favino nell’ultimo Festival di Sanremo. Quel testo, tratto da “La notte poco prima delle foreste” di Bernard-Marie Koltès, credo abbia dato vita a uno dei momenti più intensi dell’intera rassegna musicale. Forse, anche uno dei più veri. Parafrasando i contenuti del monologo, viene fuori che lo straniero, spedito da una parte all’altra senza soluzione di continuità, si sente sempre meno a casa propria. Si guarda indietro e vede il deserto. Non può raccontare la propria storia, perché a nessuno interessa ascoltarla.
Quanto è importante, oggi, raccontare la storia degli emarginati sul grande schermo? In un contesto sociale in cui più forze politiche si sono espresse con toni amari per la scelta dell’attore di portare in scena, in prima serata sul palco dell’Ariston, le difficoltà dei migranti nel nostro Paese, quale contributo può offrire il mondo dell’arte tout-court alla causa dei diversi?

L’essere umano è tale perché sa raccontarsi. La narrazione, il racconto, sono le strutture fondamentali attraverso le quali ci definiamo. La capacità di raccontare è una forma primaria di affermazione di identità universale, al di là di chi parla. Un antico detto ebraico, recita: “Dio ha creato gli uomini perché adorava ascoltare i loro racconti”. E in questo contesto, ancor di più, la narrazione è linfa vitale della memoria. Un ebreo internato nel ghetto di Varsavia scrisse la cronaca di tutto quel che stava accadendo sotto i suoi occhi. Poi, la seppellì sotto terra nella speranza che qualcuno la trovasse per divulgarla. Perché se hai fame e ti stanno sterminando senti ancora il bisogno di raccontare? Perché è questo che ti consente di sopravvivere alla tua miseria. È questo che ti permette di conservare la dignità anche quando vogliono strappartela via. Oggi, il mondo dell’arte ma non solo, ha il dovere di esporsi. Di parlare. Onore a chi divulga. Il problema con lo straniero, in fondo, è il più grande irrisolto di tutti i tempi. Io credo che il vero viaggio che un uomo deve fare nella vita sia il viaggio verso l’altro. Che è, in definitiva, il viaggio verso se stessi. L’altro è quello in cui puoi specchiarti, puoi vedere i tuoi pregi e i tuoi limiti. Ho imparato che solo attraverso la relazione si può scoprire il senso vero dell’esistenza.
Raccontare per sopravvivere, di certo, ha un senso. Ma il tutto va chiaramente calato nel contesto in cui viviamo. Per tornare al problema dello straniero, che lei definisce “il più grande irrisolto di tutti i tempi”, non si può non fare i conti col contesto politico di riferimento e i suoi esponenti. Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nel dicembre scorso ha dichiarato che “l’accoglienza ha un limite oggettivo nelle possibilità di integrazione”. Lei cosa ne pensa?
Che questa è una forma di perversione nel senso stesso del vivere umano. Mi dispiace, ma è così. Non c’è visione, non c’è prospettiva. I migranti, in questo Paese dalla memoria corta, sono un problema. Eppure gli italiani hanno subito le stesse dinamiche discriminatorie nel recente passato. A loro è stato riservato lo stesso destino che oggi si riserva ad altri. Sa quanti italiani sono emigrati in un secolo? Circa 30 milioni. Ecco allora, quando si dice che dobbiamo rimandarli a casa loro, pensiamo al passato. Cosa sarebbe accaduto se altri avessero scelto di aiutarci a casa nostra? Certi italiani sembrano aver dimenticato le storie dei propri nonni e bisnonni. Hanno dimenticato le radici. Personalmente condivido il progetto di Leoluca Orlando che, nel 2015, ha lanciato la famosa Carta di Palermo. Ebbene, in quel documento, si chiede l’abolizione universale del permesso di soggiorno. Non del passaporto, si badi, ma del permesso di soggiorno. Un essere umano non può decidere dove nasce. Ma, almeno, ha il diritto di decidere dove vive e dove muore.
Nel frattempo, però, la Carta di Palermo è rimasta un documento. E l’ultimo governo ha cercato in maniera piuttosto confusa di predisporre un Piano nazionale d’integrazione dei migranti – pur riconoscendo di non avere ancora a disposizione tutti gli strumenti per renderlo pienamente operativo – vorrei soffermarmi con lei su un altro fenomeno diffuso. Sarà il clima da campagna elettorale, ma una buona dose della cittadinanza politicamente attiva di questo Paese sembrerebbe orientata verso le ali estreme degli schieramenti partitici. Sempre più spesso si sente parlare in termini denigratori del migrante. Lo slogan “Prima gli italiani”, in buona sostanza, sembra tornato di gran moda. In più, stiamo inculcando nel prossimo il convincimento xenofobo secondo il quale straniero è diverso. E diverso è, quasi sempre, sbagliato. Per quale motivo, secondo lei, questo fenomeno appare così dilagante?
Vede, una parte della cosiddetta umanità che si ritiene civile sta pian piano reclinandosi verso il fascismo. La lezione del fascismo torna a intossicare la nostra società perché essa, in fondo, è rimasta sempre la stessa. Non si è ricostituita su basi e principi diversi. Questa società ha solo la scorza della democrazia. Si fonda, di fatto, sul culto del privilegio. Lei dice, “prima gli italiani”. Vorrei ricordare ad alcuni di questi sedicenti politici che in Germania il nazismo è salito al potere con l’analoga logica del “prima i tedeschi”. In ultima analisi, io credo che questa non sia una battaglia contro lo straniero, ma contro il povero. Paradossalmente invece di combattere la povertà, si odia chi la subisce. Questa è la falsa coscienza, l’ipocrisia e la retorica di un mondo che non si fonda né sulla fratellanza, né sull’umanità, né sull’amore verso il prossimo. È la negazione del fondamento di ogni possibile forma di etica. “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, dice il Vangelo. L’Italia è un Paese, in fondo, decisamente cristiano. Anche se molti non sanno neppure cosa sia il cristianesimo. È, innanzitutto, accoglienza. “Ero nudo e mi avete vestito, avevo fame e mi avete nutrito…”. Ma qui nessuno pensa agli ultimi, a chi ha bisogno. Le dirò una cosa. Sa qual è la caratteristica più importante del mercato? Che dà a chi può comprare. Mai a chi ha bisogno.
Insomma l’integrazione, alle nostre latitudini, è un po’ come un trapianto di fegato. Abbiamo un organo malato, l’Italia, in piena crisi demografica e, a tratti, persino d’identità. Cerchiamo di creare un innesto sano, prelevando il campione di un altro fegato che deve avere col nostro il carattere della compatibilità. Eppure, anche quando il nuovo organo è compatibile, il trapianto rischia di non funzionare. Perché se il vecchio sistema riconosce quello nuovo come ‘diverso’, lo attacca finché l’innesto non muore. Condannando, tuttavia, l’intero organismo vivente a morte certa. Perché l’accoglienza deve essere così difficile? Perché è necessario ammassare questi esseri umani nei ghetti dei caporali?
La capacità di accogliere richiede un cammino fatto di impegno. Per accogliere l’altro devi ritrarre te stesso, devi fargli spazio. Perché l’altro, quando arriva, non è sempre come piace a te. China la schiena, raccoglie i pomodori e poi? Una volta che ti è servito, cosa succede? Si auto cancella, forse? L’altro arriva con la sua umanità, l’altro chiede. Non perché pretende, ma perché è un essere umano come te che vuole per sé un futuro migliore. È un uomo che cerca di riscrivere la propria storia, come tanti giovani laureati fanno all’estero. Lo straniero, oggi, è l’altro che serve come strumento, ma a cui non viene riconosciuta umanità. I migranti servono per raccogliere i pomodori, per far guadagnare smisuratamente le multinazionali a tutti i livelli. Sono forme strumentali di un’economia distorta.
L’errore all’origine mi è chiaro. Ma cos’è che non facciamo? Come aggiustiamo l’esistente?
Non esiste una ricetta. C’è la consapevolezza. La stessa che mi fa dire che la cosa pubblica è importante nella misura in cui offre a chi non ha, per venire incontro alle esigenze delle categorie più deboli. Ma non è la realtà. Se molti di questi migranti hanno un regolare permesso di lavoro, allora perché non sottrarli ai viaggi in mare sui barconi? Perché non togliere alle organizzazioni criminali una grossa fetta di questo business cospicuo? Perché non assicurarsi che questi uomini raggiungano il nostro Paese in condizioni di sicurezza, giacché sono funzionali al mercato di cui tanto si parla? Questa è solo una tratta degli esseri umani. Siamo funzionali alla tratta degli esseri umani. La mentalità oppressiva e discriminatoria è la medesima. Non a caso, apartheid e schiavitù sono volti differenti della stessa medaglia della barbarie umana.
Tra le cause dei costanti flussi migratori ci sono sicuramente i cambiamenti climatici. Di cui si parla, come è giusto, in chiave ambientale. Ma c’è da sottolineare che l’azione svolta da talune multinazionali in alcune aree specifiche dell’Africa come del Medio Oriente, ha causato il depauperamento di mezzi e risorse. Ha scatenato vere e proprie guerre tra i poveri. Battaglie per la sopravvivenza. Con la Cop21, l’accordo di Parigi sul clima, si è cercato di mettere un freno al fenomeno del surriscaldamento globale. Ma non si è inciso in maniera specifica su quelle entità che sono causa di quegli stessi cambiamenti climatici di cui gli esperti, da anni, ci parlano.
L’unico ad aver colto il cuore del problema sembra essere stato Papa Francesco. Con l’enciclica Laudato si’ il Papa sostiene che “abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. […] Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri. Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale.”
Lei cosa ne pensa di questa sorta di colonialismo di ritorno che è una delle radici stesse dei mali di cui stiamo parlando?

Il più grande crimine impunito della storia è stato e resta il colonialismo. Padre Mosè, il famoso sacerdote africano che ha messo in salvo dal mare un gran numero di migranti, sostiene che la cooperazione internazionale porta in Africa circa 19 miliardi di euro. Il colonialismo, invece, ne sottrae 320 miliardi. “Tenetevi i vostri e lasciateci i nostri”, dice. Oggi le grandi multinazionali depredano l’Africa, l’avvelenano, la devastano. Espropriano il popolo africano in campo energetico e ambientale. Setacciano il territorio in caccia di risorse e materie prime. La prossima volta che avrò il piacere di incontrare Matteo Salvini gli proporrò di andare in Africa insieme. Se vuole, possiamo indossare un farfallino e gridare alle multinazionali: “Fuori dai coglioni!”. Così aiutiamo i migranti a casa loro. Guardi, ha ragione quando parla di colonialismo di ritorno. Anche se questi qui sono peggiori degli schiavisti antichi. Fanno accordi e affari con i peggiori farabutti locali per mettere soldi nelle banche svizzere o nei paradisi fiscali. È inutile pontificare. Se vogliamo fermare il flusso migratorio, ammesso che questo abbia un senso, dobbiamo smettere di affamare questi Paesi.
Nel rapporto pubblicato da Amnesty International nel dicembre scorso, l’organizzazione internazionale denuncia le complicità dei governi europei nelle torture e violenze a carico dei migranti. Ma la fenomenologia criminale del caporalato non è ancora stata scandagliata fino in fondo. Di fatto, Amnesty International fa riferimento alle condizioni in cui i migranti vengono detenuti alla partenza dalle coste, specialmente libiche. Ma quel che accade quando questi migranti arrivano in Italia, non sempre è attentamente monitorato. Molti dei lavoratori stagionali, come lei ha ricordato, vivono in condizioni di totale indigenza nei ghetti dei caporali. Alla luce di queste considerazioni, mi chiedo quale sia il senso di indirizzare carovane della memoria verso la Germania o la Polonia se poi si finge di non sapere di questi inferni. In sostanza, maestro: se la memoria diviene celebrativismo, se ogni commemorazione è utile a ricordare la vittima sacrificale di qualcosa o qualcuno, e non piuttosto la pluralità delle vittime della barbarie, a cosa serve ricordare?
Ha detto una cosa giustissima. Non ha alcun senso, se non quello di placare la falsa coscienza. È per questo che sono durissimo nei confronti delle comunità ebraiche. E ancor più duro nei confronti del governo fascistoide e segregazionista d’Israele. Come molti dei politici nostrani, ogni 27 gennaio si indossano lo zucchetto e la fascia al petto. Poi ci si reca in pellegrinaggio nei ‘luoghi della memoria’ per prendere il certificato di buona condotta. Il giorno dopo, però, in tutta semplicità si creano nuovi lager. Nuova sofferenza e orrore. “Sono amico di Israele”, qualcuno mi ha detto. “E che m’importa”, gli ho risposto. Oggi Israele è uno Stato armato fino ai denti che pratica una politica discriminatoria nei confronti del popolo palestinese. Israele è entrato nel salotto dei vincitori perché si comporta esattamente come loro. Lei ha perfettamente ragione. Non ha alcun senso questa memoria. È una forma infame d’ipocrisia. È come sputare sulle ceneri di quei morti, dei nostri morti. Il loro sacrificio terrificante non sarebbe stato vano se oggi vivessimo in un mondo diverso. Oggi cambiano i volti, cambiano i nomi delle vittime, ma i processi non sono cambiati. E questi processi fanno schifo.
Qualche mese fa il Ghetto dei bulgari di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, è stato sgomberato in tutta fretta. Molte di quelle famiglie, molte di quelle persone, sono scomparse nel nulla. Non c’è nessuno che si preoccupi per loro, che si domandi il perché. Allora, lo chiedo io a lei. Perché c’è un sistema di caste tra vittime? Perché, una buona volta, i rom sono i paria dell’umanità?
Lei mette il dito nella piaga. È vero, i rom sono i segregati di sempre. Le vittime sacrificali di ogni forma di razzismo e sopraffazione. Verso di loro non c’è alcun tentativo d’integrazione. Anche perché poi, chiariamolo una volta per tutte: integrazione non significa svuotare la dignità della persona umana. Senza la dignità non c’è vita. C’è sopravvivenza. E purtroppo un sopravvivente, si può schiavizzare. Quel che lei mi dice di Borgo Mezzanone, non è poi così diverso da quando, in un passato non così lontano, si tatuavano i numeri sulle braccia delle persone. Una parte di queste persone, poi, viene integrata nella cosiddetta società civile. Ma è un’integrazione che serve a dare un volto umano all’orrore che si nasconde nei ghetti. Non si riconosce la dignità della persona. La verità è che se si vuol fare integrazione occorrono grandissimi investimenti. Per insegnare la lingua e promuovere lo scambio tra culture, per costruire relazioni, possibilità di scambio tra idee e punti di vista diversi. Ma i soldi, a quanto pare, servono ad altro.
Mi permetta un’ultima domanda. Oggi l’immigrazione è vissuta quasi unicamente come un problema. Italiano, in primis. Ma anche europeo. Nell’Europa che innalza muri e fortifica le frontiere, quale potrebbe essere il ruolo del bacino del Mediterraneo? A suo giudizio, si potrebbe ripartire creando una connessione, una sorta di integrazione culturale, con i nuovi popoli che si affacciano nel nostro Paese?
Qui l’integrazione o è un problema, o è un affare. Ho una persuasione, le dirò. Penso che l’area del Mediterraneo possa divenire il luogo dal quale ripartire per rilanciare il progetto di un’umanità nuova. Nel nostro Paese, l’Italia, non si parla più di persona, di valore della dignità. Si parla di Pil, di mercato. Il termometro del nostro benessere continua a essere l’economia. Ma il termometro può confermare una malattia. E il nostro ci dice che siamo malati. Tuttavia, conta ancora credere nella speranza. Dalla speranza, nascono le possibilità. Credo ci sia una sorta di volontà di potenza, nel nostro Mediterraneo, che va solo incanalata verso la giusta direzione. Ci credo ancora. Ma si sa, io sono un romantico.

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