Trump ha il dito sul grilletto, pronto a bombardare il
regime siriano di Bashar al Assad, scrive il Washington Post. Un riflesso
fatale che coglie di tanto in tanto i presidenti americani: nel 2001, dopo l’11
settembre, contro i talebani e Bin Laden in Afghanistan, nel 2003 contro l’Iraq
di Saddam Hussein, nel 2011 contro la Libia di Gheddafi. Non risulta però che
negli ultimi 17 anni gli Stati Uniti abbiano vinto nessuna delle guerre che
hanno intrapreso.
Guerra disastro
La guerra al
terrorismo di Bush junior è stata un disastro, per non parlare dell’Iraq, per
oltre un decennio il magnete dei jihadisti, prima di Al Qaeda poi del
Califfato. Quanto al conflitto in Libia, un’iniziativa francese seguita subito
da Washington e Londra, ha avuto come effetto la disgregazione del Paese, il
terrorismo e centinaia di migliaia di profughi con la destabilizzazione della
Sponda Sud ma anche dell’Italia, l’unico Paese europeo uscito devastato dalle
primavere arabe e oggi con un quadro politico che non ha paragoni nel continente.
Secondo il
Washington Post il presidente americano avrebbe preso in considerazione
un’azione militare contro il regime di Bashar Al Assad, come risposta sull'uso
reiterato di armi chimiche. Gli Usa affermano che ci sono stati sette attacchi
con gas al cloro dall'inizio dell'anno che hanno colpito i civili. L'opzione
militare avrebbe visto, sempre secondo il giornale americano, l'opposizione del
Pentagono.
Detta così
questa notizia può sembrare assai preoccupante soprattutto perché rivela una
serie di problemi di Donald Trump. In realtà il presidente non sa più come
uscire dai guai dove si è cacciato con i suoi consiglieri, nel mirino del
procuratore speciale Robert Muller, e cerca dei diversivi: un giorno la
battaglia dei dazi con la Cina e l’Europa, un altro la guerra in Siria.
Molti se ne sono andati
Il fatto,
senza precedenti, che in un anno una pletora tra i ministri e consiglieri della
Casa Bianca se ne siano andati o siano stati licenziati, in maniera talora
drammatica e talvolta ridicola, è la prova che a Washington non servono più
esperti di economia o di politica ma un professionista della psicanalisi che
prepari Donald Trump a prendere coscienza del ruolo che è trovato a esercitare:
il leader della maggiore potenza mondiale non l’esercente di una drogheria a
conduzione familiare.
La Siria è
la cartina di tornasole delle contraddizioni in cui sono precipitati Trump e
gli Stati Uniti. Con una premessa doverosa: Trump ha ereditato i guai creati
dall’amministrazione di Obama, un presidente che a parte l’accordo sul nucleare
con l’Iran nel 2015, in politica estera non ne ha imbroccata una. L’ineffabile
Barack Obama aveva sostenuto i Fratelli Musulmani in Egitto, poi fatti fuori
dal generale Al Sisi, quindi, mal consigliato dal segretario di Stato Hillary
Clinton, aveva dato via libera a turchi e arabi per abbattere in ogni modo
Assad, alleato storico e strategico dell’Iran.
Cosa è accaduto
Cosa è
accaduto in Siria lo spiegano gli stessi americani protagonisti di una sorta di
Vietnam arabo per procura. Il 6 luglio 2011 l’ambasciatore americano Robert
Ford da Damasco andò a Hama a passeggiare in mezzo ai ribelli anti-Assad. Era
il chiaro segnale di via libera: il regime di Damasco doveva essere eliminato,
in qualunque modo.
Robert Ford
ha poi riconosciuto in diverse interviste, una di queste a Newsweek nel giugno
2017, che in Siria ci fu l’intervento dell’Arabia Saudita e delle monarchie del
Golfo, assieme alla Turchia, per sostenere i ribelli e che questi sono poi
confluiti nei gruppi radicali dell’Isis ed Al Qaeda. Insomma gli Usa e il
segretario di Stato Hillary Clinton sapevano benissimo cosa stavano facendo: la
rivoluzione popolare contro Assad era finita in mano ai jihadisti e loro li
stavano usando contro un regime alleato dell’Iran, il vero bersaglio di turchi,
arabi del Golfo e Israele.
Ma qui in
Europa hanno continuato e continuano a bersi la favoletta dei gruppi ribelli
moderati. La rivoluzione siriana, nella sua declinazione laica e popolare, è
durata assai poco, stritolata dalla repressione di Assad e poi monopolizzata
dagli estremisti armati affluiti da tutto il mondo arabo e musulmano.
Trump lo sa
Trump queste
cose le sa e ha provato a rimediare in maniera assai maldestra. Il presidente
americano in primo luogo contraddice se stesso: durante la campagna elettorale
aveva dichiarato che siccome la Siria combatteva l’Isis poteva essere
considerata un alleato contro il terrorismo. Il secondo problema è che non
abbiamo prove di quanto afferma la Casa Bianca: gli Stati Uniti hanno
bombardato nel 2003 Saddam Hussein affermando che aveva armi di distruzioni di
massa, una campagna che poi si è rivelata totalmente falsa, la madre di tutte
le bufale. Terzo problema: Trump vorrebbe bombardare un nemico ma gli
americani non sono neppure in grado di proteggere i loro alleati, i curdi
siriani che hanno combattuto contro il Califfato e che ora sono sotto le bombe
del turco Erdogan, membro della Nato.
Ma a parte
questi non trascurabili dettagli, Trump vorrebbe punire un regime sostenuto
dalla Russia e dall’Iran, due stati che in Siria sono in grado di rendere la
vita assai complicata alle truppe americane schierate in Siria nella regione
curda. Per questo il Pentagono frena.
Il peggio deve venire
Ma il peggio
deve ancora venire. Trump vorrebbe bombardare Assad non solo per distrarre
l’opinione pubblica ma perché ormai è sotto ricatto.
La notizia è
che gli Usa con lui sono diventati una sorta di Emirato degli Stati Uniti
d’America.
Il New York
Times ci informa che il procuratore speciale Robert Mueller sta indagando su un
flusso di denaro diretto a Trump da un triangolo così composto: George Nader
consigliere del principe ereditario degli Emirati Mohammed bin Zayed, Kiril
Dimitriev, ex Goldman Sachs, incaricato da Putin di gestire un fondo russo,
Erik Prince, fondatore della Blackwater (ora Academi), compagnia militare di
mercenari legata al Pentagono, consigliere di Trump nel periodo di transizione.
Ipotizziamo
uno scenario. I russi, sostenuti da amici arabi e americani, aprono un canale
con Trump e il suo entourage per capire se è possibile togliere alcune sanzioni
a Mosca messe dopo l’Ucraina. Dimitriev ne aveva parlato pubblicamente con
entusiasmo appena dopo l’elezione di Trump.
Ma come in
tutte le corti dell’Emiro la manovra solleva le obiezioni di israeliani e
sauditi che vedono nelle sanzioni uno strumento di pressione su Putin per
condizionare eventuali accordi su Siria, Iran e Medio Oriente. Non è un caso
che tre giorni fa il premier Netanyahu sia andato alla Casa Bianca: voleva
ringraziare Trump per il regalo di Gerusalemme capitale ma anche chiarire che
Assad rimane un bersaglio in quanto alleato dell’Iran e degli Hezbollah sciiti
libanesi.
Trump nei guai
Trump è
davvero nei guai. Il procuratore Mueller non molla la presa, Netanyahu gli
ricorda che la lobby americano-israeliana può affondarlo, sauditi ed emiratini,
da cui era corso nel maggio scorso a firmare accordi militari per 100 miliardi
di dollari, sventolano i loro crediti. Intanto dalla corte dell’Emiro Trump se
ne è andato anche Gary Cohn, ex Goldman Sachs, principale consigliere economico
ma contrario all’imposizione dei dazi, l’arma della Casa Bianca per gettare
fumo populista negli occhi dell’elettorato. Chi sarà il prossimo a lasciare?
Rex Tillerson, segretario di Stato, per esempio non piace agli Emirati perché
troppo debole con il Qatar.
Come uscire
da questo groviglio? Una guerra alla Siria fa contenti israeliani e arabi,
distrae l’opinione pubblica e calamita l’attenzione di quegli strateghi da
strapazzo degli europei. Avrebbe un senso soltanto se Putin e l’Iran fossero
d’accordo e avessero una soluzione di ricambio al regime alauita. Come è andata
in Iraq e in Libia lo sappiamo bene. Poi ci sarebbero anche i siriani: dal 2011
500mila morti e sette milioni di profughi, dentro e fuori il Paese. Ma
nell’Emirato di Trump nessuno chiede il loro parere.
8 marzo 2018
Commenti
Posta un commento