I sogni rinviati della Striscia di Gaza
Mariam Abu Alatta
13
marzo 2017, Haaretz
Dopo
aver lottato per sviluppare una carriera da architetto nella Striscia di Gaza,
è cresciuta in me la consapevolezza che la promozione dei diritti delle donne
era un altro modo di contribuire al miglioramento della mia comunità.
Sognavo
di diventare architetto da quando ero una ragazza, cresciuta in Kuwait e poi in
Iraq, figlia di palestinesi della Striscia di Gaza che furono espulsi con la
forza nel1967. Mi sono trasferita di nuovo nella Striscia nel 2001 e ho
studiato architettura all’Università Islamica di Gaza.
I
miei genitori erano preoccupati che l’architettura potesse essere un settore
difficile in cui avere successo, soprattutto per una donna. Mi incoraggiarono a
studiare piuttosto qualcosa legato all’informatica. Ma il mio sogno di
diventare un architetto perdurava. Sognavo di mettere le mani sul paesaggio e
sui luoghi storici di Gaza, immaginando come avrebbe potuto essere la mia città,
Gaza City, se solo ne avesse avuto la possibilità.
L’anno
in cui mi laureai, il 2006, ci furono le elezioni nella Striscia di Gaza e in
Cisgiordania. Ne derivò un periodo teso di rivalità politiche tra le fazioni
palestinesi Hamas e Fatah, seguito da un’imponente operazione militare
israeliana e dall’invasione di terra nella Striscia. Coloro che mi conoscevano
personalmente quando ero studentessa possono confermare quanto fossi positiva e
piena di energia, a quei tempi. Ero solita fare volontariato in diversi luoghi
e le mie giornate erano febbrili di attività.
Quando
compresi che la mia laurea non mi avrebbe assicurato un lavoro fisso nel campo
dell’architettura, data l’incertezza politica e sociale della situazione,
cominciai a deprimermi. Mi rivedo stesa sul letto, fissare il soffitto e
pensare intensamente: “Cosa dovrei fare?”.
Laurearsi
è un shock che porta a domande esistenziali sul futuro, e che diventa un peso
tangibile nel cercare un lavoro. Laurearsi in una zona di guerra porta questa
tensione all’estremo. Immaginate di non essere certi se sia prudente uscire;
domandarsi ogni volta che uscite di casa se riuscirete a tornarci. Ecco, queste
domande sono parte della quotidianità degli abitanti della Striscia.
Ho
ricevuto la mia prima offerta di lavoro come architetto all’inizio del 2007,
grazie a un progetto di promozione dei giovani che aiuta i laureati a trovare
un impiego. Mi offrirono un contratto di sei mesi per lavorare alla costruzione
di un nuovo edificio ad Al-Zahra, qualche chilometro a sud di Gaza City.
Nonostante la vicinanza, era quasi impossibile arrivarci. C’erano numerosi
posti di controllo della polizia locale che bloccavano il traffico tra le due
aree a causa dei continui scontri tra le forze leali ad Hamas e quelle a Fatah.
Nei
primi quattro mesi in cui lavoravo lì, ero riuscita a visitare il sito di
costruzione dieci volte. Poi Hamas assunse il controllo della Striscia e fu
irrigidita la chiusura da parte di Israele. Praticamente nulla e nessuno era
autorizzato a entrare o uscire, compresi i materiali da costruzione. L’azienda
di architettura per cui lavoravo chiuse due mesi prima della fine del mio breve
contratto. Non riuscii mai a partecipare al completamento dell’edificio.
Nell’ottobre
del 2008, quando fui assunta al municipio di Gaza City, pensai che il mio sogno
di lavorare come architetto si fosse finalmente avverato. Poi nel marzo 2010,
il progetto a cui stavo lavorando fu interrotto per problemi di finanziamenti.
Qualche mese dopo, il Comune mise a bando il mio precedente impiego, e
un’ulteriore assunzione a tempo pieno. Nonostante abbia preso parte al test,
abbia ottenuto il punteggio più alto e sia stata raccomandata dal comitato
consultivo la mia assunzione, entrambi i posti furono dati a due uomini,
sorpassando me e un’altra candidata che aveva ottenuto un punteggio molto alto,
anche se avevamo già alle spalle mesi di importante esperienza.
Ho
trascorso quasi un anno riempiendo moduli di reclamo riguardo all’episodio, ma
senza risultati. A quel tempo, me la presi come una questione personale. Fu
solo più tardi che scoprii quanto la mia vicenda fosse comune tra le
professioniste di Gaza.
Nonostante
il blocco virtuale nel settore delle costruzioni a causa della chiusura imposta
da Israele, continuavo a sperare che avrei trovato lavoro. Per gli architetti,
come per altri lavoratori impiegati in molti settori che dipendono da materiali
e attrezzature provenienti dall’esterno di Gaza, la chiusura portò le attività
al minimo. Non c’è tempo per la pianificazione urbana se le case della gente
sono in rovina. Le aziende di ingegneria civile nella Striscia furono costrette
a ridurre la portata delle loro operazioni; molte furono chiuse negli anni
seguenti, e nessuno assumeva. In seguito ad insistenti richieste da parte mia,
mi consentirono di fare volontariato presso un grande studio di architettura,
ma non c’era lavoro. Durante il mese in cui sono stata lì, non ho fatto altro
che progettare un’unica rampa di scale.
Pensai
di emigrare in un altro Paese e cercare un lavoro da un’altra parte. A un certo
punto, mi offrirono un lavoro negli Emirati Arabi, ma dopo lunghe
considerazioni, decisi di declinare l’offerta. Essendo cresciuta lontano da
Gaza, avevo già fatto esperienza della vita da straniera. Ricordavo mio padre
dire di non aver mai sentito di appartenere a nessun altro luogo. Quando tornai
nella mia patria, promisi a me stessa che non me ne sarei mai più andata.
Volevo contribuire alla mia società e alla mia comunità.
Quella decisione divenne
molto significativa. Nel 2011 venni a sapere di un’organizzazione chiamata
Aisha, che lavora per proteggere e legittimare le donne e i bambini
marginalizzati. Anche se non mi ero mai immaginata di fare null’altro se non
l’architetto, trovai una nuova motivazione nel lavoro di Aisha per dare voce ai
meno fortunati. Iniziai a lavorare lì come project manager e a
organizzare raccolte fondi, e crebbe in me la consapevolezza che la promozione dei diritti
delle donne era un altro modo per contribuire al miglioramento della mia
comunità.
Ad
Aisha ho imparato che il mio sforzo di realizzare il mio sogno non era
un’esperienza singola. Come donna, la ricerca di un impiego a Gaza è
estremamente difficile. Tanto per cominciare devi affrontare una considerevole
mancanza di lavoro, così come preferenze discriminatorie a favore degli uomini,
che sono visti come i principali percettori di reddito per le loro famiglie.
I
tassi di disoccupazione sono cresciuti sensibilmente da quando Israele ha
inasprito il blocco, toccando attualmente il livello del 35% per gli uomini e
quasi del 66% per le donne. Persino coloro che sono calcolati tra quanti hanno
un lavoro affrontano diverse difficoltà. La maggior parte dei contratti di
lavoro, sia con agenzie governative, organizzazioni della società civile, o nel
settore privato, sono per periodi da uno a cinque mesi, quindi non c’è nessuna
sicurezza di un lavoro a tempo indeterminato. A coloro che trovano un lavoro,
raramente concesse prestazioni di sicurezza sociale, e i pagamenti sono spesso
ritardati di mesi.
La
tremenda situazione economica sta causando la perdita di ogni speranza nei
giovani laureati, portando all’aumento della tossicodipendenza, della violenza,
della depressione e addirittura al suicidio. Non dovrebbe essere così. Il
blocco [isrealiano] deve finire; le restrizioni dei nostri movimenti e del
transito di beni da e per la Striscia devono essere rimosse.
La
gente di Gaza, uomini e donne, meritano di vivere dignitosamente, guadagnarsi
un salario, prosperare e realizzare i loro sogni. Il mio è ancora in sospeso.
Mariam
Abu Alatta è project manager e organizzatrice di raccolte fondi presso Aisha,
Associazione per la protezione della donna e del bambino, che lavora per
raggiungere l’integrazione dei generi attraverso la legittimazione e il
supporto psicosociale a donne bambini emarginati di Gaza. Ha contribuito al
nuovo rapporto di Gisha [organizzazione israeliana che si batte per la libertà
di movimento dei palestinesi, ndt.], dal titolo “I Sogni Rinviati: l’impatto
della chiusura sulle donne nella Striscia di Gaza”, pubblicato in occasione
della Giornata Internazionale della Donna
( Traduzione di Veronica Garbarini)
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