21 aprile 2018
Dopo
essere vissuta per 17 anni a Gerusalemme Est, Ibtisam Abid è stata
separata da suo marito e dai suoi figli, ed espulsa in Cisgiordania.
di Gideon Levy ed Alex Levac
18 aprile 2018
“Posso venire con voi?”, ci ha chiesto
il ragazzo, con gli occhi imploranti. Fino a quel momento, era rimasto
seduto tra di noi, con la faccia gelida e amareggiata, ma ora
improvvisamente scatta verso la vita. Avevamo appena detto a suo padre
che stavamo pensando di andare dalla loro casa al campo rifugiati di
Al-Amari vicino a Ramallah, per incontrarci con la madre del ragazzo.
Tre settimane fa, la mattina presto, le
truppe della Polizia di Frontiera sono arrivate alla casa della
famiglia Abid nel quartiere Isawiyah di Gerusalemme Est, hanno svegliato
gli occupanti e portato la madre, Ibtisam, e il padre , Vasim, ad una
stazione di polizia. Poche ore più tardi, la polizia ha portato Ibtisam
ad uno dei checkpoint che separano Gerusalemme dalla Cisgiordania e
l’hanno espulsa verso i territori.
Ciò segnava la fine di almeno 17 anni
durante i quali Ibtisam ha vissuto a Gerusalemme Est in una casa insieme
a Vasim, nato a Gerusalemme, e i loro tre figli, Naye , 14 anni,
Mohammed, 13, ed Emira, 12. Suo marito e i figli hanno tutti numeri di
carta di identità israeliani, essendo nati a Gerusalemme ( i bambini
sono registrati sulla carta di identità blu del loro padre), e risiedono
legalmente in Israele, ma Israele non ha mai consentito di accordare ad Ibtisam lo status di residenza, perché era nata in Cisgiordania.
Dopo numerosi tentativi dal servizio di sicurezza dello Shin Bet di
reclutare suo marito come informatore, le autorità hanno deciso di
deportare la moglie e madre in Cisgiordania, lasciando suo marito e tre
figli disorientati e in una perdita totale. Questa settimana i due
ragazzi non sono andati a scuola, perché la loro madre non ha potuto
svegliarli come al solito. Anche Emira, che è nel campo rifugiati con
sua madre, ha perso la scuola, perché la sua scuola è ad Isawiyah.
Isawiyah sembrava come una zona di
guerra quando l’abbiamo visitato lunedì. Dozzine di truppe della Polizia
di Frontiera, blindate da capo a piedi e armate e accompagnate da cani,
hanno invaso il quartiere e camminato a grandi passi attraverso i
vicoli con la loro tipica aria autoritaria. Alcuni indossavano abiti con
tasche riempite di dozzine di granate lacrimogene; sembravano come
attentatori suicidi con cinture esplosive sulla strada di perpetrare un
attacco. I cani appesantivano l’aura di terrore proiettata dai loro
padroni.
L’atmosfera nel quartiere di
Gerusalemme Est era tesa e altamente carica. Non abituati a tali
segnali, anche noi ci siamo spaventati, insieme ai locali, che tuttavia
andavano come di routine per i loro affari. Era chiaro che il più
piccolo errore avrebbe potuto innescare una deflagrazione. Dei giovani
di tanto in tanto gridavano alle truppe. La polizia ci ha abbaiato
quando ci siamo spinti con la macchina ad un lato per un momento, per
chiedere a qualcuno un indirizzo. Le truppe erano apparentemente sulla
strada per la locale scuola superiore, per quale scopo non era chiaro.
Con loro c’era una fotografa della polizia in abbigliamento civile,
sebbene indossasse un casco, e alcuni altri individui non in uniforme
con i caschi.
In mezzo al tumulto, la famiglia Abid
vive al terzo piano di un edificio residenziale. La loro casa ha un
senso kitsch, con luci rosse e blu che brillano nel soggiorno. Il
frigorifero è vuoto – mamma non è andata in giro a fare la spesa.
Vasim ha 40 anni, muscoloso, tatuato e
disoccupato. Ha passato cinque anni in una prigione israeliana per
“offese alla sicurezza”, come le chiamano. Ha sposato Ibtisam, che ha 37
anni, nel 2001. Sono cugini che si sono innamorati quando lei lo ha
visitato in carcere. Lei aveva vissuto qui, in questo appartamento di
Isawiyah, dal loro matrimonio. Solo quando ha compiuto 25 anni ha potuto
sottoporre una richiesta per la residenza. La sua domanda è stata
respinta per “ragioni di sicurezza”, senza una spiegazione, certamente.
Oltre al fatto che suo marito ha scontato una pena, alcuni dei lontani
parenti di Ibtisam sono attivisti di Hamas. Nel corso della petizione
all’Alta Corte di Giustizia nel 2015, i numeri delle carte di identità
israeliani erano stati concessi ai tre figli – ma non ad Ibtisam. Finché
i bambini non hanno ricevuto i numeri, non avevano assicurazione
medica; il loro padre chiedeva ai suoi dottori di fare le prescrizioni
per loro a suo nome. La vita a Gerusalemme unificata.
La vita andava avanti. Ibtisam ha
vissuto nella sua casa illegalmente per 17 anni, mai lasciando Isawiyah
tranne che per partecipare alle preghiere del venerdì, alla moschea
Al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme quando i tempi erano
tranquilli. Ogni tre mesi presentava una richiesta per visitare
Gerusalemme, e di solito riceveva un permesso per starvi una settimana.
Allora andava ad Al-Amari per vedere sua madre e la sua famiglia, cui
era vietato visitare Gerusalemme, e poi tornava a casa usando il
permesso temporaneo. Il ciclo è andato avanti per anni.
È stato anni fa, quando Vasim era in
prigione, che lo Shin Bet tentò di recrutarlo, ma egli rifiutò
l’offerta, ci dice. Fu convocato parecchie volte per parlare ad agenti
dell’organizzazione, che gli offrivano una carta di identità per Ibtisam
in cambio della sua cooperazione.
Più o meno un mese fa, la Polizia di
Frontiera è tornata alla casa degli Abid nel mezzo della notte ed ha
arrestato Nayef, il figlio maggiore, sospettato di lancio di pietre. Di
nuovo Vasim è stato convocato dallo Shin Bet alla stazione di polizia
sulla via Salah-e-Din, attraverso la strada dalle mura della Città
Vecchia, dove un agente gli ha detto che in cambio della sua
cooperazione suo figlio sarebbe stato rilasciato ed Ibtisam avrebbe
ottenuto una carta di identità. Ha rifiutato; Nayef è stato rilasciato
dopo 10 giorni di detenzione al Russian Compound della polizia nel
centro di Gerusalemme.
Il 28 marzo, la Polizia di Frontiera si
è mostrata di nuovo, questa volta alle 6 del mattino. In una maniera
relativamente educata, hanno ordinato ai genitori di accompagnarli. Per
circa cinque ore i due sono stati tenuti in una stanza alla stazione di
polizia, ma non è stato loro permesso di parlarsi l’uno con l’altra.
Quando Vasim è stato portato dentro per l’interrogatorio,
l’interrogatore gli ha detto, “Hai rifiutato di lavorare con noi, e
pertanto, per la legge, dobbiamo espellere tua moglie, che è qui
illegalmente”. È stato rilasciato alle 4 del mattino, ed è andato a
casa. Non aveva idea di dove fosse Ibtisam. Solo più tardi quella sera
ha saputo che era stata espulsa ed era andata a casa di sua madre.
Ben abituato alla vita sotto
occupazione, il 13enne Mohammed si affretta a prendere il suo
certificato di nascita plastificato. È pericoloso per lui lasciare la
casa senza: esso dice che era nato a Gerusalemme, cosa che gli permette
libertà di movimento. Dato che non ha ancora 16 anni, non ha per ora una
sua carta di identità. Lo portiamo con noi al campo Al-Amari,
attraverso il notorio checkpoint Qalandiyah. Il viaggio prende più di
un’ora per la lunga attesa per passare il checkpoint.
La nuova-vecchia casa di Ibtisam è in
un vicolo appena largo abbastanza per camminarci. Mohammed corre davanti
a noi per salutarla. Si erano incontrati anche il giorno prima; la
squadra di calcio di Mohammed aveva giocato una partita nella vicina
Ramallah, e sua madre aveva colto l’opportunità di vedere lui e suo
fratello, che erano venuti insieme. I bambini hanno pianto vedendola e
non volevano tornare indietro a Gerusalemme quando il tempo è finito.
Ibtisam ci saluta in jeans e un
tradizionale copricapo e, insolitamente, agita le mani. Sta contando i
giorni da quando è qui – questo è il 19° giorno dalla sua espulsione.
Ci dice che la polizia le ha chiesto se
era di Hamas o Fatah. “Io non sono di Fatah e non sono di Hamas”, ha
risposto, “Io sono una regolare donna palestinese”. L’hanno informata
che stava vivendo illegalmente a Gerusalemme, e lei ha detto loro, “Voi
siete da biasimare per questo, non io. Io ho vissuto qui per 17 anni. I
miei figli e mio marito sono qui. Devo vivere con la mia famiglia”.
Dopo una mezz’ora di domande, ad
Ibtisam sono state prese le impronte digitali e le hanno fatto firmare
un documento che dichiarava che prometteva di non ritornare alla sua
casa e a Gerusalemme. È stata portata via in una macchina della polizia
che lungo la strada è passata per l’entrata ad Isawiyah; la polizia non
le ha permesso di prendere i vestiti o altri oggetti dalla sua casa. È
stata condotta al checkpoint A-Za’im, vicino all’insediamento di Ma’aleh
Adumim fuori Gerusalemme, e lasciata al suo destino.
Suo suocero, Nayef Abid, che ha una
carta di identità israeliana, la stava aspettando al checkpoint. Era
andato alla stazione di polizia quella mattina per cercare di scoprire
dove fossero suo figlio e sua nuora, e gli era stato detto che Ibtisam
sarebbe stata espulsa ad A-Za’im nel pomeriggio. L’ha portata a casa di
sua madre, Nawal Barash, 58 anni, che era rimasta vedova pochi anni fa.
Poi Nayef è andato ad Isawiyah per prendere dei vestiti e oggetti
personali per Ibtisam, e le ha portato anche sua figlia Emira.
La situazione in cui i suoi due figli
non vanno a scuola e la loro sorella non può frequentare le lezioni non
può continuare, ci dice Ibtisam: Emira deve tornare ad Isawiyah.
Muoversi da un campo rifugiati è fuori questione per la famiglia, In
quanto perderebbero il loro status di residenza e i numeri delle carte
di identità, che assicurano una relativa libertà e benefici di welfare
sociale. In nessuna circostanza i bambini perderanno i loro diritti a
Gerusalemme, dicono i genitori. Questo è un limbo crudele.
Sabine Hadad, direttrice dell’ala del
portavoce e dell’informazione dell’Autorità per la Popolazione e
l’Immigrazione ( un ramo del ministero degli interni) ha offerto una
breve, laconica replica ad una interrogazione di Haaretz questa
settimana: “La richiesta dei familiari per l’unificazione della famiglia
è stata rigettata già nel 2014 per ragioni di sicurezza”.
Vasim ha visitato sua moglie solo una
volta da quando è stata espulsa. È difficile per lui avere a che fare
con il checkpoint Qalandiyah, dice. Ciò che è illegale, dichiara, è
dividere una famiglia dopo 17 anni.
“Sono di Gerusalemme”, dice. “Sono nato
qui. La mia famiglia e i miei amici sono qui. I miei figli sono nati
qui. La scuola dei miei bambini è qui. La loro clinica HMO è qui. La mia
vita intera esiste qui. È come un pesce nell’acqua: se lo togli
dall’acqua, morirà”.
Nel frattempo, Ibtisam telefona ai suoi
figli ogni giorno, ma non sempre li raggiunge: è connessa ad un
provider israeliano e la ricezione nel campo rifugiati è scarsa.
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