Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese
Per
decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del
progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un
Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora
l’occupazione finirebbe.”
Ma
se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi
basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì
notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del
Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche
centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia
di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione
nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la
massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70%
della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui
famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato
Israele.
Mentre
gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo
seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che
ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach,
che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi
come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre
i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai
genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi
vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile
prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono
più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i
siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva
raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.
L’accusa
che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e
quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e
espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la
notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il
colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione
la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella
palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto
coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante,
prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di
informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una
forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto,
la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente
la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino
ad arrivare al Sud Africa.
Nonviolenza palestinese
La
“Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana
non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza
palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con
l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico
giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno
sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini
palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella
protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia
feriti dall’esercito israeliano.
In
Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto
peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è
stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri
politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o
distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o
ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di
scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni
lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto
totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]).
Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato
inevitabilmente affrontato con la violenza.
Appena
tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo
uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti
rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade
per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i
propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele
mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad
altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle
linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti
maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi,
diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la
continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.
Eppure
sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione
di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno
sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse
decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo
sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza
bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la
Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza
civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei
prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le
forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco,
la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per
citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per
esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno
ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti
di loro vennero torturati.
Quindi
il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa
lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente
affrontata da Israele con la violenza e la repressione.
“Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”
Immaginiamo
per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto,
anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere
abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando
possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti
sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere.
Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della
barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza
nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste
pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi
l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.
Anche
se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni
indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto
dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta
dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e
dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta
armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza
fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove
c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei
la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle
armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che
l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto
che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del
proprio disonore.”
Si
potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun
progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto
ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino
domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.
Ironicamente
questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua
ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte
al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù.
Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile
violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero
liberati.
Questa
di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda
la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello
che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per
capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue.
Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma
Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente
politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso
di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si
libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi
hanno diritto alla libertà?
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.
Neve
Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore
di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.
(Traduzione di Amedeo Rossi)
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